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Letture e meditazioni


Santa Sindone: l´Amore più grande

27 giugno 2015

Conclusa l’ostensione della Sindone, rimane il mistero del dolore di Gesù. Negli anni ’70, Chiara Lubich, rispondendo ad alcuni giovani, indica loro l’Uomo della Sindone come modello di Colui che “tutto ha sopportato per amore”.

 

sindone«La rivista francese “Paris Match” ha riportato un lungo articolo su un documento importantissimo che può svelarci qualcosa di Colui che amiamo.

Durante quest’anno – per desiderio dei gen – ho cercato di parlare di un solo argomento: Gesù crocifisso e abbandonato.

Vogliamo conoscere quel mistero, vogliamo sviscerarlo.

Vogliamo vedere e sapere e capire, per quanto possiamo, quello che può essere considerato il vertice della passione di Gesù.

“Paris Match” riportava uno studio fatto sul lenzuolo – la Sindone – che avvolse il corpo di Gesù quando fu sepolto. Gli studi fatti su questo straordinario pezzo di tessuto fanno pensare che sia veramente autentico.

Esso rivela qualcosa, anzi molto, di Cristo quando viveva la sua agonia alzato lassù fra terra e cielo.

È di questo Gesù Uomo che oggi vorrei parlarvi.

Mi interessa moltissimo, perché è in quelle carni che abitava quell’Anima che attraversò il terribile buio dell’abbandono.

Il lenzuolo è esso stesso un reportage: porta infatti impressi molti segni del corpo santo di Cristo. Dice che Gesù era un uomo forte e lavoratore: la muscolatura della spalla e del braccio destro e le mani lo stanno a dimostrare. La muscolatura delle gambe dice che era un camminatore: e noi dal Vangelo ne sappiamo qualcosa.

Terribile fu la sua flagellazione: più di cento colpi dati con un ordine preciso.

Inchiodato ai piedi, tutto il suo corpo privo di qualsiasi sostegno cadeva in avanti, sorretto soltanto dai chiodi alle mani.

La corona di spine non fu come sempre la immaginiamo. La presenza di grossi buchi nel capo dice che gli conficcarono in testa un intero casco di spine.

Il volto, con un occhio tumefatto, non sarebbe insanguinato come il resto del corpo, il che confermerebbe l’episodio della Veronica che conosciamo per tradizione.

Un ginocchio è leso per una forte caduta.

Sangue da ogni dove.

Una spada ha raggiunto il suo cuore, passando dal basso del torace…

Dolore, dolore, dolore inenarrabile, inconcepibile.

Tre lunghe eterne ore così, senza sosta, senza perdere la conoscenza mai.

Ho capito che nessuno al mondo può dire di aver mai sofferto come Lui; e che Lui può dire qualcosa di più, sempre, a chiunque nel mondo sia visitato da qualsiasi sofferenza.

«Perché Gesù ha sofferto?», mi chiese un giovane coreano giorni fa.

C’era una rottura da riaggiustare tra Dio e l’uomo. Solo un prezzo come il suo l’avrebbe riparata.

Oggi sembra che i tempi in cui i cristiani meditano i dolori di Gesù e seguono passo passo la sua salita al Calvario siano pressoché tramontati. Sono senz’altro cadute in disuso alcune pratiche arrugginite dal tempo e svuotate di significato, perché non più espressione di amore vero.

«Donne, perché piangete sopra di me? Non piangete su di me, ma su voi stesse» (Lc 23, 28), ha ripetuto oggi Gesù a certi cristiani che non comprendono se non la superficie delle cose e portano in sé una pietà pietrificata o quasi, solo sentimentale.

Ci sono due cose che occorre capire prima di penetrare il misterioso dolore del nostro Amico crocifisso, il vivo fra i vivi, per tutti i secoli.

Ed è che tutto Egli ha sopportato per amore.

E che noi dobbiamo rispondere al suo col nostro amore.

Come?

Dobbiamo fare di ogni dolore fisico, piccolo o grande, che ci tocca, un dono a Lui per continuare anche in noi, venti secoli dopo, la sua Passione per la salvezza del mondo.

Egli, infatti, ci ha avvertito: «Se qualcuno vuol venir dietro a me… prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 24; Mc 8, 34; Lc 9, 23 )».

Chiara Lubichda “gen”, giugno 1970: editoriale Il nostro compito venti secoli dopo

Fonte: Centro Chiara Lubich

 

 

 

Citta' del Vaticano, 03 Aprile 2015

 

Riportiamo il testo integrale della predica del Venerdì Santo 2015 pronunciata da padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, nella Basilica Vaticana.

 

Abbiamo appena ascoltato il racconto del processo di Gesù di fronte a Pilato. C’è in esso un momento sul quale una volta tanto dobbiamo soffermarci.

 

“Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: “Salve, re dei Giudei!”. E gli davano schiaffi. […] Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: Ecce homo! “Ecco l'uomo!” (Gv 19, 1-5). 

 

Tra gli innumerevoli dipinti che hanno per tema l’Ecce Homo, ce n’è uno che mi ha sempre impressionato. È del pittore fiammingo del secolo XVI, Jan Mostaert, e si trova alla National Gallery di Londra. Cerco di descriverlo. Servirà a imprimerci meglio nella mente l’episodio, dal momento che il pittore non fa che trascrivere fedelmente a colori i dati del racconto evangelico, soprattutto quello di Marco (Mc 15,16-20).

 

Gesù ha in capo una corona di spine. Un fascio di arbusti spinosi che si trovava nel cortile, preparato forse per accendere il fuoco, ha suggerito ai soldati l’idea di questa crudele parodia della sua regalità. Dal capo di Gesù scendono gocce di sangue. Ha la bocca semiaperta, come chi fa fatica a respirare. Sulle spalle gli è posto un mantello pesante e consunto, più simile a latta che a stoffa. E sono spalle solcate dai colpi recenti della flagellazione! Ha i polsi legati a due ritorte con una rozza fune; in una mano gli hanno messo una canna a modo di scettro e nell’altra un fascio di verghe, simboli beffardi della sua regalità. Gesù non può più muovere neppure un dito; è l’uomo ridotto all’impotenza più totale, il prototipo di tutti gli ammanettati della storia.

 

Meditando sulla Passione, il filosofo Blaise Pascal scrisse un giorno queste parole: “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo: non bisogna dormire durante questo tempo”[1]. C’è un senso in cui queste parole si applicano alla persona stessa di Gesù, cioè al capo del corpo mistico, non solo alle sue membra. Non, nonostante che ora è risorto e vivo, ma proprio perché è risorto e vivo. Ma lasciamo da parte questo significato troppo misterioso per noi e parliamo del senso più certo di quelle parole. Gesú è in agonia fino alla fine del mondo in ogni uomo o donna sottoposti agli stessi suoi tormenti. “L’avete fatto a me!” (Mt, 25, 40): questa sua parola, egli non l’ha detta solo dei credenti in lui; l’ha detta di ogni uomo e di ogni donna affamati, nudi, maltrattati, carcerati.

 

Per una volta non pensiamo alle piaghe sociali, collettive: la fame, la povertà, l’ingiustizia, lo sfruttamento dei deboli. Di esse si parla spesso - anche se mai abbastanza -, ma c’è il rischio che diventino delle astrazioni. Categorie, non persone. Pensiamo piuttosto alle sofferenze dei singoli, delle persone con un nome e un’identità precise; alle torture decise a sangue freddo e inflitte volontariamente, in questo stesso momento, da esseri umani a un altri esseri umani, perfino a dei bambini.

 

Quanti “Ecce homo” nel mondo! Mio Dio, quanti “Ecce homo”! Quanti prigionieri che si trovano nelle stesse condizioni di Gesú nel pretorio di Pilato: soli, ammanettati, torturati, in balia di militari rozzi e pieni di odio, che si abbandonano a ogni sorta di crudeltà fisica e psicologica, divertendosi a veder soffrire. “Non bisogna dormire, non bisogna lasciarli soli!”

 

L’esclamazione “Ecce homo!” non si applica solo alle vittime, ma anche ai carnefici. Vuole dire: ecco di che cosa è capace l’uomo! Con timore e tremore, diciamo pure: ecco di che cosa siamo capaci noi uomini! Altro che la marcia inarrestabile dell’homo sapiens sapiens, l’uomo che, secondo qualcuno, doveva nascere dalla morte di  Dio e prenderne il posto [2].

 

*    *    *

 

I cristiani non sono certamente le sole vittime della violenza omicida che c’è nel mondo, ma non si può ignorare che in molti paesi essi sono le vittime designate e più frequenti. Gesù disse un giorno ai suoi discepoli: “Viene l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere onore a  Dio” (Gv 16, 2). Mai forse queste parole hanno trovato, nella storia, un compimento così puntuale come oggi.

 

Un vescovo del III secolo, Dionigi di Alessandria, ci ha lasciato la testimonianza di una Pasqua celebrata dai cristiani durante la feroce persecuzione dell’imperatore romano Decio: “Ci esiliarono e, soli fra tutti, fummo perseguitati e messi a morte. Ma anche allora abbiamo celebrato la Pasqua. Ogni luogo dove si pativa divenne per noi un posto per celebrare la festa: fosse un campo, un deserto, una nave, una locanda, una prigione. I martiri perfetti celebrarono la più splendida delle feste pasquali, essendo ammessi al festino celeste”[3]. Sarà così per molti cristiani anche la Pasqua di questo anno, il 2015 dopo Cristo.

 

C’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di denunciare, da laico, la inquietante indifferenza delle istituzioni mondiali e dell’opinione pubblica di fronte a tutto ciò, ricordando a che cosa una tale indifferenza ha portato nel passato [4]. Rischiamo di essere tutti, istituzioni e persone del mondo occidentale, dei Pilati che si lavano le mani.

 

A noi, però, in questo giorno non è consentito fare alcuna denuncia. Tradiremmo il mistero che stiamo celebrando. Gesú morì gridando: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34). Questa preghiera non è semplicemente mormorata a fior di labbra; è gridata perché la si oda bene. Anzi non è neppure una preghiera, è una richiesta perentoria, fatta con l’autorità che gli viene dall’essere il Figlio: “Padre, perdona loro!” E poiché lui stesso ha detto che il Padre ascoltava ogni sua preghiera (Gv 11, 42), dobbiamo credere che ha ascoltato anche questa sua ultima preghiera dalla croce, e che quindi i crocifissori di Cristo sono stati perdonati da Dio (certo, non senza essersi prima, in qualche modo, ravveduti) e sono con lui in paradiso, a testimoniare per l’eternità fin dove è stato capace di spingersi l’amore di  Dio.

 

L’ignoranza, per se, si verificava esclusivamente nei soldati. Ma la preghiera di Gesú non si limita ad essi. La grandezza divina del suo perdono consiste nel fatto che è offerto anche ai suoi più accaniti nemici. Proprio per loro adduce la scusante dell' ignoranza. Anche se hanno agito con astuzia e cattiveria, in realtà non sapevano ciò che facevano, non pensavano di mettere in croce un uomo che era realmente Messia e Figlio di Dio! Invece di accusare i suoi avversari, oppure di perdonare affidando al Padre celeste la cura di vendicarlo, egli li difende.

 

Il suo esempio propone ai discepoli una generosità infinita. Perdonare con la sua stessa grandezza d'animo non può comportare semplicemente un atteggiamento negativo, con cui si rinuncia a volere il male per chi fa del male; deve tradursi invece in una volontà positiva di fare loro del bene, se non altro con una preghiera  rivolta a Dio, in loro favore. “Pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt 5, 44). Questo perdono non può trovare neppure un compenso nella speranza di un castigo divino. Deve essere ispirato da una carità che scusa il prossimo, senza tuttavia chiudere gli occhi di fronte alla verità, ma cercando anzi di fermare i malvagi in modo che non facciano altro male agli altri e a se stessi.

 

Ci verrebbe da dire: “Signore, ci chiedi l’impossibile!” Ci risponderebbe: “Lo so, ma io sono morto per potervi dare ciò che vi chiedo. Non vi ho dato solo il comando di perdonare e neppure soltanto un esempio eroico di perdono; con la mia morte vi ho procurato la grazia che vi rende capaci di perdonare. Io non ho lasciato al mondo solo un insegnamento sulla misericordia, come hanno fatto tanti altri. Io sono anche  Dio e ho fatto scaturire per voi dalla mia morte fiumi di misericordia. Da essi potete attingere a piene mani nell’anno giubilare della misericordia che vi sta davanti”.

 

*    *     *

 

Allora, dirà qualcuno, seguire Cristo è un votarsi sempre passivamente  alla sconfitta e alla morte? Al contrario! “Abbiate coraggio”, egli disse ai suoi apostoli prima di avviarsi alla passione: “Io ho vinto il mondo” (Gv 16, 33). Cristo ha vinto il mondo, vincendo il male del mondo. La vittoria definitiva del bene sul male, che si manifesterà alla fine dei tempi, è già avvenuta, di diritto e di fatto, sulla croce di Cristo. “Ora –diceva – è il giudizio di questo mondo” (Gv 12, 31). Da quel giorno il male è perdente; tanto più perdente, quanto più sembra trionfare. È già giudicato e condannato in ultima istanza, con una sentenza inappellabile.

 

Gesù ha vinto la violenza non opponendo ad essa una violenza più grande, ma subendola e mettendone a nudo tutta l’ingiustizia e l’inutilità. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che sant’Agostino ha racchiuso in tre parole: “Victor quia victima – Vincitore perché vittima”[5]. Fu “vedendolo morire così”, che il centurione romano esclamò: “Veramente, quest’uomo era Figlio di  Dio!” (Mc 15, 39). Gli altri si chiedevano cosa significasse l’”alto grido” che Gesú emise morendo (Mc 15, 37). Lui che era esperto di combattenti e di combattimenti, riconobbe subito che era un grido di vittoria[6].

 

Il problema della violenza ci assilla, ci scandalizza, oggi che essa ha inventato forme nuove e spaventose di crudeltà e di barbarie. Noi cristiani reagiamo inorriditi all’idea che si possa uccidere in nome di Dio. Qualcuno però obietta: ma la Bibbia non è anch’essa piena di storie di violenza? Non è,  Dio, chiamato “il Signore degli eserciti”? Non è attribuito a lui l’ordine di votare allo sterminio intere città? Non è lui che prescrive, nella Legge mosaica, numerosi casi di pena di morte?

 

Se avessero rivolto a Gesù, durante la sua vita, la stessa obiezione, egli avrebbe sicuramente risposto ciò che rispose a proposito del divorzio: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19, 8). Anche a proposito della violenza, “al principio non era così”. Il primo capitolo della Genesi ci presenta un mondo dove non è neppure pensabile la violenza, né degli esseri umani tra di loro, né tra gli uomini e gli animali. Neppure per vendicare la morte di Abele, dunque per punire un assassino, è lecito uccidere (cf Gn 4, 15).

 

Il genuino pensiero di Dio è espresso dal comandamento “Non uccidere”, più che dalle eccezioni fatte ad esso nella Legge, che sono concessioni alla “durezza del cuore” e dei costumi degli uomini. La violenza, dopo il peccato, fa parte purtroppo della vita, e l’Antico Testamento, che riflette la vita e deve servire per la vita, cerca almeno, con la sua legislazione e con la stessa pena di morte, di incanalare e arginare la violenza perché non degeneri in arbitrio personale e non ci si sbrani a vicenda[7].

 

Paolo parla di un tempo caratterizzato dalla “tolleranza” di Dio (Rm 3, 25). Dio tollera la violenza, come tollera la poligamia, il divorzio e altre cose, ma viene educando il popolo verso un tempo in cui il suo piano originario verrà “ricapitolato” e rimesso in onore, come per una nuova creazione. Questo tempo è arrivato con Gesù che, sul monte, proclama: “Avete inteso che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra… Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico’; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5, 38-39; 43-44).

 

Il vero “discorso della montagna” che ha cambiato il mondo non è però quello che Gesù pronunciò un giorno su una collina della Galilea, ma quello che proclama ora, silenziosamente, dalla croce. Sul Calvario egli pronuncia un definitivo “No!” alla violenza, opponendo ad essa, non semplicemente la non-violenza, ma, di più, il perdono, la mitezza e l’amore. Se ci sarà ancora violenza, essa non potrà più, neppure remotamente, richiamarsi a Dio e ammantarsi della sua autorità. Farlo significa far regredire l’idea di Dio a stadi primitivi e grossolani, superati dalla coscienza religiosa e civile dell’umanità.

 

*    *    *

 

I veri martiri di Cristo non muoiono con i pugni chiusi, ma con le mani giunte. Ne abbiamo avuto tanti esempi recenti. È lui che ai 21 cristiani copti uccisi dall’ISIS in Libia il 22 Febbraio scorso, ha dato la forza di morire sotto i colpi, mormorando il nome di Gesú. E anche noi preghiamo:

 

“Signore Gesù Cristo, ti preghiamo per i nostri fratelli di fede perseguitati, e per tutti gli Ecce homo che ci sono, in questo momento, sulla faccia della terra, cristiani e non cristiani. Maria, sotto la croce tu ti sei unita al Figlio e hai mormorato dietro di lui: “Padre, perdona loro!”: aiutaci a vincere il male con il bene, non solo sullo scenario grande del mondo, ma anche nella vita quotidiana, dentro le stesse mura di casa nostra. Tu, che, “soffrendo col Figlio tuo morente sulla croce, hai cooperato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità”[8], ispira agli uomini e alle donne del nostro tempo pensieri di pace, di misericordia. E di perdono. Così sia”.

 

*

 

NOTE

 

[1] Blaise Pascal, “Il mistero di Gesú” (Pensieri, ed. Brunschvicg,  n. 553).

[2] F. Nietzsche, La gaia scienza,III, 125.

[3] Dionigi di Alessandria, in Eusebio, Storia eccl., VII, 22, 4.

[4] Ernesto Galli della Loggia, “L’indifferenza che uccide”, in “Corriere della sera” 28 Luglio 2014, p. 1.

[5] S.Agostino, Confessioni, X, 43.

[6] Cf. F. Topping “An impossible God”.

[7] Cf R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 19963.

[8] Lumen gentium, n. 61.

 

 

 



 

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Messaggio Cristiano
Visita del Santo Padre Francesco a VENEZIA

Piazza San Marco (Venezia)
V Domenica del Tempo di Pasqua, 28 aprile 2024

Gesù è la vite, noi siamo i tralci. E Dio, il Padre misericordioso e buono, come un agricoltore paziente ci lavora con premura perché la nostra vita sia ricolma di frutti. Per questo, Gesù ci raccomanda di custodire il dono inestimabile che è il legame con Lui, da cui dipende la nostra vita e la nostra fecondità. Egli ripete con insistenza: «Rimanete in me e io in voi. […] Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto» (Gv 15,4). Solo chi rimane unito a Gesù porta frutto. Soffermiamoci su questo.

Gesù sta per concludere la sua missione terrena. Nell’Ultima Cena con quelli che saranno i suoi apostoli, Egli consegna loro, insieme con l’Eucaristia, alcune parole-chiave. Una di esse è proprio questa: «rimanete», mantenete vivo il legame con me, restate uniti a me come i tralci alla vite. Usando questa immagine, Gesù riprende una metafora biblica che il popolo conosceva bene e che incontrava anche nella preghiera, come nel salmo che dice: «Dio degli eserciti, ritorna! / Guarda dal cielo e vedi / e visita questa vigna» (Sal 80,15). Israele è la vigna che il Signore ha piantato e di cui si è preso cura. E quando il popolo non porta i frutti d’amore che il Signore si attende, il profeta Isaia formula un atto di accusa utilizzando proprio la parabola di un agricoltore che ha dissodato la sua vigna, l’ha ripulita dai sassi, vi ha piantato viti pregiate aspettandosi che producesse vino buono, ma essa, invece, dà soltanto acini acerbi. E il profeta conclude: «Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti / è la casa d’Israele; / gli abitanti di Giuda / sono la sua piantagione preferita. / Egli si aspettava giustizia / ed ecco spargimento di sangue, / attendeva rettitudine / ed ecco grida di oppressi» (Is 5,7). Gesù stesso, riprendendo Isaia, racconta la drammatica parabola dei vignaioli omicidi, mettendo in risalto il contrasto tra il lavoro paziente di Dio e il rifiuto del suo popolo (cfr Mt 21,33-44).

Dunque, la metafora della vite, mentre esprime la cura amorevole di Dio per noi, d’altra parte ci mette in guardia, perché, se spezziamo questo legame con il Signore, non possiamo generare frutti di vita buona e noi stessi rischiamo di diventare rami secchi. È brutto, questo, diventare rami secchi, quei rami che vengono gettati via.

Fratelli e sorelle, sullo sfondo dell’immagine usata da Gesù, penso anche alla lunga storia che lega Venezia al lavoro delle vigne e alla produzione del vino, alla cura di tanti viticoltori e ai numerosi vigneti sorti nelle isole della Laguna e nei giardini tra le calli della città, e a quelli che impegnavano i monaci a produrre vino per le loro comunità. Dentro questa memoria, non è difficile cogliere il messaggio della parabola della vite e dei tralci: la fede in Gesù, il legame con Lui non imprigiona la nostra libertà ma, al contrario, ci apre ad accogliere la linfa dell’amore di Dio, il quale moltiplica la nostra gioia, si prende cura di noi con la premura di un bravo vignaiolo e fa nascere germogli anche quando il terreno della nostra vita diventa arido. E tante volte il nostro cuore diventa arido.

Ma la metafora uscita dal cuore di Gesù può essere letta anche pensando a questa città costruita sulle acque, e riconosciuta per questa sua unicità come uno dei luoghi più suggestivi al mondo. Venezia è un tutt’uno con le acque su cui sorge, e senza la cura e la salvaguardia di questo scenario naturale potrebbe perfino cessare di esistere. Così è pure la nostra vita: anche noi, immersi da sempre nelle sorgenti dell’amore di Dio, siamo stati rigenerati nel Battesimo, siamo rinati a vita nuova dall’acqua e dallo Spirito Santo e inseriti in Cristo come i tralci nella vite. In noi scorre la linfa di questo amore, senza il quale diventiamo rami secchi, che non portano frutto. Il Beato Giovanni Paolo I, quando era Patriarca di questa città, disse una volta che Gesù «è venuto a portare agli uomini la vita eterna […]». E continuava: «Quella vita sta in lui e da lui passa ai suoi discepoli, come la linfa sale dal tronco ai tralci della vite. Essa è un’acqua fresca, che egli dà, una fonte sempre zampillante» (A. Luciani, Venezia 1975-1976. Opera Omnia. Discorsi, scritti, articoli, vol. VII, Padova 2011, 158).

Fratelli e sorelle, questo è ciò che conta: rimanere nel Signore, dimorare in Lui. Pensiamo a questo, un minuto: rimanere nel Signore, dimorare in Lui. E questo verbo – rimanere – non va interpretato come qualcosa di statico, come se volesse dirci di stare fermi, parcheggiati nella passività; in realtà, ci invita a metterci in movimento, perché rimanere nel Signore significa crescere; sempre rimanere nel Signore significa crescere, crescere nella relazione con Lui, dialogare con Lui, accogliere la sua Parola, seguirlo sulla strada del Regno di Dio. Perciò si tratta di metterci in cammino dietro a Lui: rimanere nel Signore e camminare, metterci in cammino dietro a Lui, lasciarci provocare dal suo Vangelo e diventare testimoni del suo amore.

Per questo Gesù dice che chi rimane in Lui porta frutto. E non si tratta di un frutto qualsiasi! Il frutto dei tralci in cui scorre la linfa è l’uva, e dall’uva proviene il vino, che è un segno messianico per eccellenza. Gesù, infatti, il Messia inviato dal Padre, porta il vino dell’amore di Dio nel cuore dell’uomo e lo riempie di gioia, lo riempie di speranza.

Cari fratelli e sorelle, questo è il frutto che siamo chiamati a portare nella nostra vita, nelle nostre relazioni, nei luoghi che frequentiamo ogni giorno, nella nostra società, nel nostro lavoro. Se oggi guardiamo a questa città di Venezia, ammiriamo la sua incantevole bellezza, ma siamo anche preoccupati per le tante problematiche che la minacciano: i cambiamenti climatici, che hanno un impatto sulle acque della Laguna e sul territorio; la fragilità delle costruzioni, dei beni culturali, ma anche quella delle persone; la difficoltà di creare un ambiente che sia a misura d’uomo attraverso un’adeguata gestione del turismo; e inoltre tutto ciò che queste realtà rischiano di generare in termini di relazioni sociali sfilacciate, di individualismo e solitudine.

E noi cristiani, che siamo tralci uniti alla vite, vigna del Dio che ha cura dell’umanità e ha creato il mondo come un giardino perché noi possiamo fiorirvi e farlo fiorire, noi cristiani, come rispondiamo? Restando uniti a Cristo potremo portare i frutti del Vangelo dentro la realtà che abitiamo: frutti di giustizia e di pace, frutti di solidarietà e di cura vicendevole; scelte di attenzione per la salvaguardia del patrimonio ambientale ma anche di quello umano: non dimentichiamo il patrimonio umano, la grande umanità nostra, quella che ha preso Dio per camminare con noi; abbiamo bisogno che le nostre comunità cristiane, i nostri quartieri, le città, diventino luoghi ospitali, accoglienti, inclusivi. E Venezia, che da sempre è luogo di incontro e di scambio culturale, è chiamata ad essere segno di bellezza accessibile a tutti, a partire dagli ultimi, segno di fraternità e di cura per la nostra casa comune. Venezia, terra che fa fratelli. Grazie.

Papa Francesco