Venerdì 26 Dicembre 2025


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Questa è la mia Chiesa

Padre Giovanni Martinelli

martinelli

 

“Ho visto delle teste tagliate e ho pensato che anch’io potrei fare quella fine. E se Dio vorrà che quel termine sia la mia testa tagliata, così sarà [...]. Poter dare testimonianza è una cosa preziosa” è la dichiarazione di pochi giorni fa di Padre Giovanni Martinelli, vicario apostolico a Tripoli in un’intervista al Corriere del Veneto. In Libia la situazione è drammatica. Eppure lui ha dichiarato che non tornerà in Italia. Resterà con i suoi 150 fedeli. Riconosco in queste parole la fermezza di quando nel suo ultimo viaggio in Italia l’ho incontrato. Un’intervista che ha lasciato una traccia nel mio cuore e la certezza di aver incontrato un seguace del Cristo povero e crocifisso.

di Giovanna Abbagnara

 

Si appoggia ad un bastone per camminare, i movimenti sono lenti. Il periodo di convalescenza in Italia è lungo ma lo sguardo è sereno e gli occhi si illuminano quando parla della sua Libia. Vuole tornare a casa al più presto. «Voglio morire lì», mi dice fermo e sicuro «Non lascerò mai la Libia finché avrò respiro. Quella è la mia Chiesa». Comprendo subito da queste poche battute iniziali del nostro lungo e appassionato colloquio che mi trovo di fronte ad un uomo di Dio, ad un padre coraggioso che ha sofferto e continua a soffrire per la porzione di Chiesa che gli è stata affidata.

 

È incredibile quanto la storia personale di questo vescovo si intrecci con quella travagliata della Libia. «Sono nato e vissuto nel mondo musulmano» racconta padre Martinelli. Nel ‘37 i suoi genitori vanno in Libia come coloniali e qui nel 1931 nel villaggio Breviglieri, oggi El Qadra, nasce il piccolo Giovanni. «Spesso mi reco durante le feste musulmane a visitare i vecchi beduini nei villaggi vicino a Tripoli» racconta il vescovo «e qui mi dicono che si ricordano di me quando ero bambino, perché mi hanno portato in braccio». Giovanni si nutre dell’amore e della fede semplice e rocciosa dei suoi genitori. Cresce respirando l’amicizia con un popolo di cui si sente pienamente parte. Ha continuamente davanti agli occhi la testimonianza dei frati francescani. È questa la cornice in cui matura la scelta di venire in Italia poco più che tredicenne per studiare e prepararsi a diventare frate. «L’ideale di Francesco mi affascinava e mi dicevo: “Papà è venuto in questa terra come colonialista, io voglio tornarci come Francesco, per annunciare e testimoniare il vangelo di Cristo”». Nel 1967 il dono della consacrazione presbiterale. Due anni dopo riceve il permesso dall’ordine francescano per prepararsi alla missione, è mandato a Roma per studiare. Nel 1971 finalmente la partenza, inizia il suo ministero in Libia. Il paese è sconvolto dall’arrivo di Gheddafi. Per 42 anni convivono in quella terra martoriata.

 

Presto arriva la chiamata episcopale e la consacrazione il 4 ottobre 1985. Il filone del suo nuovo ministero è incontrare l’altro, farsi prossimo, costruire ponti di amicizia con il mondo arabo-musulmano. Il 13 aprile 1986, nel pieno della crisi tra gli Usa e la Libia, è arrestato a Bengasi dai soldati di Gheddafi. Nonostante questo doloroso episodio, non ha mai rinnegato la sua amicizia con il mondo arabo-musulmano. «La domanda che mi ponevo continuamente era: come sono capace con la ricchezza dell’amore di Gesù di incontrare l’altro? Non ho mai cercato di convertire nessuno, piuttosto ho chiesto a Dio di convertire me stesso e di donarmi degli amici nella fede». Ma come concretamente padre Martinelli ha fatto questo, in un contesto di un regime ostile? La risposta arriva serena, lucida e articolata: «Prima di tutto attraverso un grande rispetto della loro fede. San Francesco ci esorta ad andare per il mondo senza litigare, evitando le dispute, non giudicando gli altri ma con mitezza, pace e umiltà. In secondo luogo attraverso le opere di carità. Il regime non ha mai contrastato la nostra assistenza ai malati e ai feriti negli ospedali. L’amore non si combatte».

 

Si apre una nuova pagina nel nostro colloquio. Padre Martinelli si sofferma a raccontarmi del coraggio eroico e nascosto di alcune donne in quella terra martoriata. Sono giovani ragazze filippine per la maggior parte infermiere che vengono per lavorare negli ospedali. Donne che manifestano nella professione la forte identità cristiana. Sono presenti ovunque, anche negli ospedali di campo del deserto. Sono spesso mamme di famiglia. Non è raro sentirle dire ai malati: “Tu sei mio figlio…”. Sono forti, coraggiose, determinate. La fede si traduce in un amore, in una forza che feconda la fede musulmana. La loro presenza fa a pugni con una visione della donna che i libici non comprendono ma che accettano come ricchezza e che purifica il loro sguardo sulla condizione femminile. Per la Chiesa locale è una grande gioia. «Per anni» mi confida padre Giovanni «mi sono preoccupato di far venire in Libia suore che potessero aiutare negli ospedali poi guardando queste donne mi sono accorto che attraverso il loro modo di lavorare seminavano il vangelo dell’amore con una dedizione straordinaria. Non solo, la loro presenza ha interpellato anche la Chiesa locale. Quando si riuniscono per pregare, chiedono un sacerdote per celebrare la messa e per le confessioni». Sono l’espressione di una Chiesa viva, operante nel tessuto di una società islamica di per sé molto chiusa.

 

Le famiglie cristiane in Libia sono una minoranza ma vivono sostanzialmente in modo tranquillo e io credo fermamente, mentre ascolto padre Martinelli, che questo sia soprattutto merito suo. Per questo suo essere pienamente inserito in quella terra che gli ha donato i natali, per aver stabilito buoni rapporti con le autorità e con lo stesso Gheddafi. Quest’ultimo, addirittura, dopo il 1986, ha scritto a Giovanni Paolo II chiedendo suore italiane per gli ospedali della Libia, suo padre è stato assistito da religiose nella malattia e fino alla morte.

 

Devo essere sincera, ho fatto fatica a congedarmi da padre Giovanni. Solo il tempo inesorabile e tiranno mi ha convinto che era ora di lasciarlo riposare. Quando nella propria professione si incontrano persone così, vorresti cercare di raccogliere e saper descrivere tutta la bellezza di una vita spesa al servizio di Dio e dei fratelli. Ma sai che il di più resta incastonato nelle pieghe della storia, resta negli incontri, negli sguardi, nelle ore passate in preghiera. Il di più appartiene a Dio. A noi resta lo spazio di un incontro pieno di luce.

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE, Piazza San Pietro, 17 Dicembre 2025

Udienza Generale del 17 dicembre 2025 - Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. IV. La Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale. 8. La Pasqua come approdo del cuore inquieto

Saluto del Santo Padre ai malati in Aula Paolo VI prima dell’Udienza Generale

Buongiorno a tutti! Good morning! Welcome!

Faccio un breve saluto, una benedizione per ognuno di voi.

In questa giornata volevamo difendervi un po’ dagli elementi, dal freddo soprattutto... Non sta piovendo, però così forse state un po’ più comodi. Dopo potrete seguire l’Udienza sullo schermo, o se volete potete anche uscire, però approfittiamo di questo piccolo incontro un po’ più personale, così, per salutarvi, per offrirvi la benedizione del Signore, e anche un augurio. Siamo già vicino alla festa di Natale e vogliamo chiedere al Signore che la gioia di questo tempo di Natale vi accompagni tutti: le vostre famiglie, i vostri cari, e che siate sempre nelle mani del Signore con la fiducia, con l’amore che solo Dio ci può dare.

Do la benedizione a tutti adesso, poi passo a salutarvi.

Benedizione

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

La vita umana è caratterizzata da un movimento costante che ci spinge a fare, ad agire. Oggi si richiede ovunque rapidità nel conseguire risultati ottimali negli ambiti più svariati. In che modo la risurrezione di Gesù illumina questo tratto della nostra esperienza? Quando parteciperemo alla sua vittoria sulla morte, ci riposeremo? La fede ci dice: sì, riposeremo. Non saremo inattivi, ma entreremo nel riposo di Dio, che è pace e gioia. Ebbene, dobbiamo solo aspettare, o questo ci può cambiare fin da ora?

Siamo assorbiti da tante attività che non sempre ci rendono soddisfatti. Molte delle nostre azioni hanno a che fare con cose pratiche, concrete. Dobbiamo assumerci la responsabilità di tanti impegni, risolvere problemi, affrontare fatiche. Anche Gesù si è coinvolto con le persone e con la vita, non risparmiandosi, anzi donandosi fino alla fine. Eppure, percepiamo spesso quanto il troppo fare, invece di darci pienezza, diventi un vortice che ci stordisce, ci toglie serenità, ci impedisce di vivere al meglio ciò che è davvero importante per la nostra vita. Ci sentiamo allora stanchi, insoddisfatti: il tempo pare disperdersi in mille cose pratiche che però non risolvono il significato ultimo della nostra esistenza. A volte, alla fine di giornate piene di attività, ci sentiamo vuoti. Perché? Perché noi non siamo macchine, abbiamo un “cuore”, anzi, possiamo dire, siamo un cuore.

Il cuore è il simbolo di tutta la nostra umanità, sintesi di pensieri, sentimenti e desideri, il centro invisibile delle nostre persone. L’evangelista Matteo ci invita a riflettere sull’importanza del cuore, nel riportare questa bellissima frase di Gesù: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).

È dunque nel cuore che si conserva il vero tesoro, non nelle casseforti della terra, non nei grandi investimenti finanziari, mai come oggi impazziti e ingiustamente concentrati, idolatrati al sanguinoso prezzo di milioni di vite umane e della devastazione della creazione di Dio.

È importante riflettere su questi aspetti, perché nei numerosi impegni che di continuo affrontiamo, sempre più affiora il rischio della dispersione, talvolta della disperazione, della mancanza di significato, persino in persone apparentemente di successo. Invece, leggere la vita nel segno della Pasqua, guardarla con Gesù Risorto, significa trovare l’accesso all’essenza della persona umana, al nostro cuore: cor inquietum. Con questo aggettivo “inquieto”, Sant’Agostino ci fa comprendere lo slancio dell’essere umano proteso al suo pieno compimento. La frase integrale rimanda all’inizio delle Confessioni, dove Agostino scrive: «Signore, ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te» (I, 1,1).

L’inquietudine è il segno che il nostro cuore non si muove a caso, in modo disordinato, senza un fine o una meta, ma è orientato alla sua destinazione ultima, quella del “ritorno a casa”. E l’approdo autentico del cuore non consiste nel possesso dei beni di questo mondo, ma nel conseguire ciò che può colmarlo pienamente, ovvero l’amore di Dio, o meglio, Dio Amore. Questo tesoro, però, lo si trova solo amando il prossimo che si incontra lungo il cammino: i fratelli e le sorelle in carne e ossa, la cui presenza sollecita e interroga il nostro cuore, chiamandolo ad aprirsi e a donarsi. Il prossimo ti chiede di rallentare, di guardarlo negli occhi, a volte di cambiare programma, forse anche di cambiare direzione.

Carissimi, ecco il segreto del movimento del cuore umano: tornare alla sorgente del suo essere, godere della gioia che non viene meno, che non delude. Nessuno può vivere senza un significato che vada oltre il contingente, oltre ciò che passa. Il cuore umano non può vivere senza sperare, senza sapere di essere fatto per la pienezza, non per la mancanza.

Gesù Cristo, con la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione ha dato fondamento solido a questa speranza. Il cuore inquieto non sarà deluso, se entra nel dinamismo dell’amore per cui è creato. L’approdo è certo, la vita ha vinto e in Cristo continuerà a vincere in ogni morte del quotidiano. Questa è la speranza cristiana: benediciamo e ringraziamo sempre il Signore che ce l’ha donata!

LEONE XIV