Domenica 14 Dicembre 2025


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Le parole del Papa


FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE - XXVIII GIORNATA MONDIALE DELLA VITA CONSACRATA

Basilica di San Pietro - Venerdì, 2 febbraio 2024

 

 

SANTA MESSA CON I MEMBRI DEGLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA
E DELLE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

 

Mentre il popolo attendeva la salvezza del Signore, i profeti ne annunciavano la venuta, come afferma il profeta Malachia: «Entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate. E l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire» (3,1). Simeone e Anna sono immagine e figura di questa attesa. Vedono entrare il Signore nel suo tempio e, illuminati dallo Spirito Santo, lo riconoscono nel Bambino che Maria porta in braccio. Lo avevano atteso per tutta la vita: Simeone, «uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele» (Lc 2,25); Anna, che «non si allontanava mai dal tempio» (Lc 2,37).

Ci fa bene guardare a questi due anziani pazienti nell’attesa, vigilanti nello spirito e perseveranti nella preghiera. Il loro cuore è rimasto sveglio, come una fiaccola sempre accesa. Sono avanti in età, ma hanno la giovinezza del cuore; non si lasciano consumare dai giorni, perché i loro occhi rimangono rivolti a Dio in attesa (cfr Sal 145,15). Rivolti a Dio in attesa, sempre in attesa. Lungo il cammino della vita hanno sperimentato fatiche e delusioni, ma non si sono arresi al disfattismo: non hanno “mandato in pensione” la speranza. E così, contemplando il Bambino, riconoscono che il tempo è compiuto, la profezia si è realizzata, Colui che cercavano e sospiravano, il Messia delle genti, è arrivato. Tenendo desta l’attesa del Signore, diventano capaci di accoglierlo nella novità della sua venuta.

Fratelli e sorelle, l’attesa di Dio è importante anche per noi, per il nostro cammino di fede. Ogni giorno il Signore ci visita, ci parla, si svela in modo inaspettato e, alla fine della vita e dei tempi, verrà. Perciò Egli stesso ci esorta a restare svegli, a vigilare, a perseverare nell’attesa. La cosa peggiore che può capitarci, infatti, è scivolare nel “sonno dello spirito”: addormentare il cuore, anestetizzare l’anima, archiviare la speranza negli angoli oscuri delle delusioni e delle rassegnazioni.

Penso a voi, sorelle e fratelli consacrati, e al dono che siete; penso a ciascuno di noi cristiani di oggi: siamo ancora capaci di vivere l’attesa? Non siamo a volte troppo presi da noi stessi, dalle cose e dai ritmi intensi di ogni giornata, al punto da dimenticarci di Dio che sempre viene? Non siamo forse troppo rapiti dalle nostre opere di bene, rischiando di trasformare anche la vita religiosa e cristiana nelle “tante cose da fare” e tralasciando la ricerca quotidiana del Signore? Non rischiamo a volte di programmare la vita personale e la vita comunitaria sul calcolo delle possibilità di successo, invece che coltivare con gioia e umiltà il piccolo seme che ci è affidato, nella pazienza di chi semina senza pretendere nulla e di chi sa aspettare i tempi e le sorprese di Dio? A volte – dobbiamo riconoscerlo – abbiamo smarrito questa capacità di attendere. Ciò dipende da diversi ostacoli, e tra questi vorrei sottolinearne due.

Il primo ostacolo che ci fa perdere la capacità di attendere è la trascuratezza della vita interiore. È quello che succede quando la stanchezza prevale sullo stupore, quando l’abitudine prende il posto dell’entusiasmo, quando perdiamo la perseveranza nel cammino spirituale, quando le esperienze negative, i conflitti o i frutti che sembrano tardare ci trasformano in persone amare e amareggiate. Non fa bene masticare l’amarezza, perché in una famiglia religiosa – come in ogni comunità e famiglia – le persone amareggiate e con la “faccia scura” appesantiscono l’aria; quelle persone che sembrano avere aceto nel cuore. Occorre allora recuperare la grazia smarrita: andare indietro e attraverso un’intensa vita interiore, ritornare allo spirito di umiltà gioiosa, di gratitudine silenziosa. E questo si alimenta con l’adorazione, con il lavoro di ginocchia e di cuore, con la preghiera concreta che lotta e intercede, capace di risvegliare il desiderio di Dio, l’amore di un tempo, lo stupore del primo giorno, il gusto dell’attesa.

Il secondo ostacolo è l’adeguamento allo stile del mondo, che finisce per prendere il posto del Vangelo. E il nostro è un mondo che spesso corre a gran velocità, che esalta il “tutto e subito”, che si consuma nell’attivismo e cerca di esorcizzare le paure e le angosce della vita nei templi pagani del consumismo o nello svago a tutti i costi. In un contesto del genere, dove il silenzio è bandito e smarrito, attendere non è facile, perché richiede un atteggiamento di sana passività, il coraggio di rallentare il passo, di non lasciarci travolgere dalle attività, di fare spazio dentro di noi all’azione di Dio, come insegna la mistica cristiana. Facciamo attenzione, allora, perché lo spirito del mondo non entri nelle nostre comunità religiose, nella vita ecclesiale e nel cammino di ciascuno di noi, altrimenti non porteremo frutto. La vita cristiana e la missione apostolica hanno bisogno che l’attesa, maturata nella preghiera e nella fedeltà quotidiana, ci liberi dal mito dell’efficienza, dall’ossessione del rendimento e, soprattutto, dalla pretesa di rinchiudere Dio nelle nostre categorie, perché Egli viene sempre in modo imprevedibile, viene sempre in tempi che non sono nostri e in modi che non sono quelli che ci aspettiamo.

Come afferma la mistica e filosofa francese Simone Weil, noi siamo la sposa che attende nella notte l’arrivo dello sposo, e «la parte della futura sposa è l’attesa […]. Desiderare Dio e rinunciare a tutto il resto: in ciò soltanto consiste la salvezza» (S. Weil, Attesa di Dio, Milano 1991, 152). Sorelle, fratelli, coltiviamo nella preghiera l’attesa del Signore e impariamo la buona “passività dello Spirito”: così saremo capaci di aprirci alla novità di Dio.

Come Simeone, prendiamo in braccio anche noi il Bambino, il Dio della novità e delle sorprese. Accogliendo il Signore, il passato si apre al futuro, il vecchio che è in noi si apre al nuovo che Lui suscita. Questo non è semplice – lo sappiamo – perché, nella vita religiosa come in quella di ogni cristiano, è difficile opporsi alla “forza del vecchio”: «non è facile infatti che il vecchio che è in noi accolga il bambino, il nuovo – accogliere il nuovo, nella nostra vecchiaia accogliere il nuovo –. […] La novità di Dio si presenta come un bambino e noi, con tutte le nostre abitudini, paure, timori, invidie – pensiamo alle invidie! –, preoccupazioni, siamo di fronte a questo bambino. Lo abbracceremo, lo accoglieremo, gli faremo spazio? Questa novità entrerà davvero nella nostra vita o piuttosto tenteremo di mettere insieme vecchio e nuovo, cercando di lasciarci disturbare il meno possibile dalla presenza della novità di Dio?» (C.M. Martini, Qualcosa di così personaleMeditazioni sulla preghiera, Milano 2009, 32-33).

Fratelli e sorelle, queste domande sono per noi, per ognuno di noi, sono per le nostre comunità, sono per la Chiesa. Lasciamoci inquietare, lasciamoci muovere dallo Spirito, come Simeone e Anna. Se come loro vivremo l’attesa nella custodia della vita interiore e nella coerenza con lo stile del Vangelo, se come loro vivremo così l’attesa, abbracceremo Gesù, che è luce e speranza della vita.

 
 
 

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GIUBILARE, Piazza San Pietro, 6 Dicembre 2025

CATECHESI DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Catechesi. 10. Sperare è partecipare – Alberto Marvelli

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Siamo da poco entrati nel periodo liturgico dell’Avvento, che ci educa all’attenzione ai segni dei tempi. Noi infatti ricordiamo la prima venuta di Gesù, il Dio con noi, per imparare a riconoscerlo ogni volta che viene e per prepararci a quando tornerà. Allora saremo per sempre insieme. Insieme con Lui, con tutti i nostri fratelli sorelle, con ogni altra creatura, in questo mondo finalmente redento: la nuova creazione.

Questa attesa non è passiva. Infatti, il Natale di Gesù ci rivela un Dio coinvolgente: Maria, Giuseppe, i pastori, Simeone, Anna, e più avanti Giovanni Battista, i discepoli e tutti coloro che incontrano il Signore sono coinvolti, sono chiamati a partecipare. È un onore grande, e che vertigine! Dio ci coinvolge nella sua storia, nei suoi sogni. Sperare, allora, è partecipare. Il motto del Giubileo, “Pellegrini di speranza”, non è uno slogan che tra un mese passerà! È un programma di vita: “pellegrini di speranza” vuol dire gente che cammina e che attende, non però con le mani in mano, ma partecipando.

Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato a leggere i segni dei tempi: ci dice che nessuno riesce a farlo da solo, ma insieme, nella Chiesa e con tanti fratelli e sorelle, si leggono i segni dei tempi. Sono segni di Dio, di Dio che viene col suo Regno, attraverso le circostanze storiche. Dio non è fuori dal mondo, fuori da questa vita: abbiamo imparato nella prima venuta di Gesù, Dio-con-noi, a cercarlo fra le realtà della vita. Cercarlo con intelligenza, cuore e maniche rimboccate! E il Concilio ha detto che questa missione è in modo particolare dei fedeli laici, uomini e donne, perché il Dio che si è incarnato ci viene incontro nelle situazioni di ogni giorno. Nei problemi e nelle bellezze del mondo, Gesù ci aspetta e ci coinvolge, ci chiede che operiamo con Lui. Ecco perché sperare è partecipare!

Oggi vorrei ricordare un nome: quello di Alberto Marvelli, giovane italiano vissuto nella prima metà del secolo scorso. Educato in famiglia secondo il Vangelo, formatosi nell’Azione Cattolica, si laurea in ingegneria e si affaccia alla vita sociale al tempo della seconda guerra mondiale, che lui condanna fermamente. A Rimini e dintorni si impegna con tutte le forze a soccorrere i feriti, i malati, gli sfollati. Tanti lo ammirano per questa sua dedizione disinteressata e, dopo la guerra, viene eletto assessore e incaricato della commissione per gli alloggi e per la ricostruzione. Così entra nella vita politica attiva, ma proprio mentre si reca in bicicletta a un comizio viene investito da un camion militare. Aveva 28 anni. Alberto ci mostra che sperare è partecipare, che servire il Regno di Dio dà gioia anche in mezzo a grandi rischi. Il mondo diventa migliore, se noi perdiamo un po’ di sicurezza e di tranquillità per scegliere il bene. Questo è partecipare.

Chiediamoci: sto partecipando a qualche iniziativa buona, che impegna i miei talenti? Ho l’orizzonte e il respiro del Regno di Dio, quando faccio qualche servizio? Oppure lo faccio brontolando, lamentandomi che tutto va male? Il sorriso sulle labbra è il segno della grazia in noi.

Sperare è partecipare: questo è un dono che Dio ci fa. Nessuno salva il mondo da solo. E neanche Dio vuole salvarlo da solo: Lui potrebbe, ma non vuole, perché insieme è meglio. Partecipare ci fa esprimere e rende più nostro ciò che alla fine contempleremo per sempre, quando Gesù definitivamente tornerà.