Cronaca Bianca


P. Ermes Ronchi

Esercizi Spirituali, 6/11 Marzo 2016

ESERCIZI SPIRITUALI della curia romana con la presenza del Papa

Ariccia, Casa del Divino Maestro, 6/11 Marzo 2016

Sintesi delle meditazioni tenute da padre Ermes Ronchi, dell’Ordine dei Servi di Maria, su alcune domande del Vangelo:

 

  • «Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: Che cosa cercate?» (Gv, 1, 38);
  •  «Perché avete paura, non avete ancora fede?» (Mc, 4, 40);
  • «Voi siete il sale della terra. Ma se il sale perde sapore, con che cosa lo si renderà salato?» (Mt, 5, 13);
  • «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc, 9, 20);
  • «E volgendosi verso la donna, disse a Simone: vedi questa donna?» (Lc, 7, 44);
  • «Gesù domandò ai discepoli: Quanti pani avete? » (Mc, 6, 38; Mt 15, 34);
  • «Allora Gesù si alzò e le disse: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? » (Gv, 8, 10);
  • «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv, 20, 15);
  • «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv, 21, 16);
  • «Maria disse all’angelo: Come avverrà questo?» (Lc, 1, 34).

(V. Allegato) 

 

 

Convegno dei Religiosi, Genova, 25 Aprile 2015

 

Il mio buongiorno a tutti e a tutte e la mia trepidazione nell’essere davanti a una assemblea così che immagino, sento, intensa; che sa più di me quello che è la vita religiosa. Ma io parlerò della mia esperienza e non di una teoria.

 

A me piace vivere. La vita è bella e la mia vita è stata bellissima. Una avventura piena di volti, di orizzonti, di esperienze. Quando facevo il bracciante agricolo nelle vigne del Monferrato, lo spazzino comunale in Canada, il cuoco o il boscaiolo o il docente universitario: non conta quello che fai ma “come” lo fai. A Dio piacciono gli avverbi più che i verbi: la qualità.

 

E riprendo la “borraccia” che mi ha lanciato il dott. Folena. La mia “Galilea”. Qual è stata la mia Galilea? Io ho avuto due vocazioni. Sono entrato in Seminario a dieci anni, salendo sul carretto tirato da un cavallo dei frati della Grazie di Udine. Era la questua della legna che serviva per la cucina e le stufe del convento. Un fraticello, fra Valentino, tornava ogni anno nel mio paese di boschi e di colline. La mia seconda vocazione risale a dieci anni dopo.

 

Avevo finito il liceo classico in convento, avevo vent’anni e mi sono innamorato. Ho deciso di andare dove il cuore mi diceva che avrei trovato la felicità. Ho lasciato il convento, sono tornato al paese ed è successo qualcosa… Era d’agosto, era la stagione del fieno, quando si falciava con la falce un pezzettino al giorno sulla collina e stavo rastrellando il fieno da solo; una collina ad anfiteatro, mi ricordo il luogo; erano le tre del pomeriggio e ho avuto una rivelazione improvvisa, luminosa. La certezza che la mia vita avrebbe avuto pienezza di significato, di scopo, di fioritura, di frutti solo buttandomi, tutto, nel vangelo.

 

Sono rimasto lì immobile, nel profumo del fieno, attorno saltavano le cavallette e io ho cominciato a sentire che dentro di me saltava di gioia, danzava, il mio futuro con Dio. Ecco, la mia seconda vocazione è stata così. Una scelta tra due amori, nel nome di un amore più grande. E amore vero cos’è? Dice Rilke: “Ti ama davvero chi ti costringe a diventare il meglio di ciò che puoi diventare”.

 

Ho sentito questo in me. E sono frate oggi perché sono convinto che la mia vita ha pienezza così. Sono “Servo di Santa Maria” per pienezza non per dovere. E’ un piacere non è una fatica. E ne è valsa la pena perché posso dire, in tutta verità, che incontrare Gesù Cristo, è stato l’affare migliore della mia vita. E ho tanto cercato ma di meglio di Lui non ho trovato.

 

Non mi sono però fatto mancare delle crisi ma ho imparato due o tre cose per il buon uso delle crisi. La prima è questa che il paradiso non è pieno di santi ma è pieno di peccatori perdonati! Cioè di gente come me. Ma vi confesso la mia strategia che si richiama a questo discorso del Papa della “Galilea”; io ho custodito come un tesoro quel momento sulla collina, tra il fieno, ce l’ho intatto nel mio archivio interiore e quando ho difficoltà ritorno lì, riapro quello scrigno, ne tiro fuori di nuovo la perla di quel pomeriggio d’agosto, sulla collina alle tre, la rivivo e sento intensità e gioia. E che cos’è la gioia? La gioia è solo un sintomo che stai camminando bene, che sei sulla strada giusta nella tua vita.

 

Un giorno avevano chiesto al card. Martini: “Quando noi facciamo un ritiro, incontri, ci sentiamo molto carichi, poi però si torna a casa e pian piano tutto si spegne… Come si fa a mantenere acceso il cuore? E lui rispose così: “Non si può conservare sempre l’incandescenza del cuore ma sempre si può custodire la memoria dell’incandescenza. Il ricordo di quando ci bruciava il cuore per via”. E quando la vocazione sembra un po’ appassire, io mi metto come su un promontorio, guardo il mare, la scia di una barca sul mare, la barca è già andata dietro il promontorio, non la vedi più, ma la scia di spuma che ha lasciato ti assicura che la barca c’è e naviga.

 

Come faceva Santa Maria che conservava nel cuore, custodiva, meditava tutto ciò che le era accaduto e tutti, tutti abbiamo archivi interiori pieni di tesori, di momenti bellissimi vissuti, da riaprire nei giorni di crisi, come ci suggerisce Isaia: “Ricordati dell’amore della tua giovinezza”. E così non posso dimenticare quello che è stato il mio primo innamoramento, quella ragazza, e poi a ruota il secondo innamoramento: il vangelo. I miei amori giovani. Vocazione per me è stata un affare di cuore. Come dice Siracide (17,6): “Dio diede loro il cuore per pensare”.

 

A volte penso, perdonatemi il paragone audace, che la mia vocazione sia stata modellata, come una lontanissima eco, del grande modello di Luca. Ricordate, l’angelo, fu mandato ad una ragazza “promessa sposa” di un uomo. Maria il primo sì non l’ha detto a Dio, l’ha detto a Giuseppe. L’angelo va da una ragazza innamorata che è entrata nelle cose dell’amore e, proprio per questo può entrare nelle cose di Dio. Il cuore è la porta di Dio. Scrive Christos Yanarras: “L’amore è la sola pregustazione del Regno, perché solo se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui”.

 

Allora perché sono frate? La mia vocazione? Perché in nessun altra forma di vita avrei altrettanta pienezza di vita. E’ un discorso di pienezza, come dice Paolo (Ef 3,19): “Noi siamo portatori di pienezza, di pleroforia, ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. (Col 2,10) Siamo “coloro che hanno parte alla pienezza di Cristo”. I cristiani, il frate, la suora, gli sposi, coloro che credono: sono tutti figli di una “addizione” non di una “sottrazione”, di un incremento, non di una diminuzione d’umano, più Dio in me – io ho sentito questo – equivale a più io. Più Dio uguale più io. E’ questa intensificazione dell’umano.

 

Oggi a che cosa mi ispiro? E questo è un discorso al quale tengo tanto. Oggi mi ispiro a una frase della lettera agli Ebrei 3,6: “Casa di Dio siamo noi, se conserviamo libertà e speranza”, come abbiamo cantato nel primo canto. Ed è quello che faceva Gesù. Chi era più libero di Lui? Chi accendeva speranze più grandi?

 

E’ vero che i nostri maestri di formazione dicevano altre parole: “Casa di Dio sarete se osservate le Costituzioni, se osservate i voti”. I nostri professori di teologia dicevano: “Siamo casa di Dio se custodiamo l’integrità della verità e la purezza della morale”; tutte cose ottime.

 

Ma la lettera agli Ebrei sceglie altre pietre d’angolo per la “casa di Dio”: libertà e speranza. E io sento che questo per me è verissimo. Dio edifica la sua casa con uomini e donne che emanano libertà e speranza, perché uno dei miei maestri, p. Giovanni Vannucci, diceva sempre: “Il vangelo non è una morale ma una sconvolgente liberazione”. E io, e noi e le nostre comunità, i conventi, le parrocchie che cosa trasmettono alla città degli uomini luci di libertà e speranza oppure il puntare il dito? Più libertà o più regole?

 

Ecco: abbiamo il compito di essere “casa di Dio”. Origene nel commento all’Esodo, al capitolo 10, sostiene che l’immagine più bella del cristiano è quella di una donna in gravidanza che cammina portando tra la gente una vita nuova. Come Santa Maria, incinta di Dio, che passa in fretta sui monti di Giuda, dice “ferens Verbum”, portando il Verbo. Porta la Parola ed è come un ostensorio che cammina. E’ il cielo di Cristo. Vive due vite: la propria e quella di Dio; è uno e due al tempo stesso. Non sono più io che vivo è Cristo che vive in me.

 

Il credente, il religioso passa nel mondo così: ferens Verbu, come Maria, irradiando Dio. La donna incinta non occorre neppure che parli: è evidente a tutti ciò che accade in lei. Allo stesso modo per noi. Non sono citazioni di carismi o di regole o di fondatori che dicono se io porto Dio in me o no. Con naturalezza e stupore, se sono gravido di Dio, se sono incinto di luce; è l’eloquenza dei gesti. Meno opere e più gesti per essere casa, tempio, santuario, grembo di Dio; aiutarlo a incarnarsi.

 

“Casa di Dio” siamo noi se conserviamo speranza e libertà. Speranza in ebraico si dice “kivvà”, un termine connesso con la parola Kav che indica la corda, la corda dei muratori, il filo che i costruttori tendono per edificare i muri della casa o le mura della città. Sperare evoca l’idea di una corda tesa verso… La speranza è una corda verso il futuro, il mio presente che va oltre; capacità di progettare traversate. Perché non si ferma il grande flusso, il sommovimento tellurico degli oscuri fratelli dell’Africa che vengono perché sono mossi da altissime speranze e da altissima disperazione? Niente li può fermare!

 

La speranza è anche una cordicella di filo scarlatto come alla casa di Racab a Gerico, appesa al balcone della mia vita, alla quale mi aggrappo perché so che il capo del filo rosso della storia è saldo nelle mani di Dio e Dio salva: questo è il suo nome.

 

Emanare speranza che ha tre pilastri. Primo: la vita ha senso. Il senso della vita è positivo. Questo positivo comincia qui ma sfocia nell’eterno. La speranza è la testarda fedeltà all’idea che la storia e la vita, la mia, siano nonostante tutte le smentite un possibile cammino di salvezza.

 

Speranza è il futuro diventato presente. E’ coltivare nel presente un buon futuro. Coltivare le condizioni di fecondità delle vite e delle persone. Le nostre comunità dovrebbero essere coltivatrici della fecondità di tutti e dei presupposti per far fiorire le vite. Il Regno di Dio verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme. E l’importanza che io come persona e che le comunità danno al futuro, indicano la vitalità o meno della mia comunità e della mia persona. L’energia vitale, la statura di una comunità è direttamente proporzionale all’importanza che hanno in lei il futuro, i progetti, le speranze.

 

Perché quello che consola il mondo è una speranza. La speranza sta al centro del Vangelo, è il cuore semplice dell’annuncio che è questo: è possibile vivere meglio per tutti, e Gesù ne possiede la chiave. E’ possibile per tutti una vita che sia buona, bella e beata e Gesù ne conosce il segreto.

 

Quando mi dicono che la religione è l’oppio dei popoli, io rispondo: leggete le beatitudini; sono l’adrenalina dei popoli altro che l’oppio. Ieri un giovane prete mi raccontava il suo esame di teologia pastorale che stava andando bene, quando – come ultima domanda – il professore gli dice così: “Come spiegheresti ad un bambino di sei anni perché tu segui Cristo?” E il giovane prete comincia a parlare del progetto di salvezza, della storia dell’alleanza, del Redentore, fame di eternità che c’è nel cuore inquieto… ma capisce che si sta incartando. “Oh Dio, adesso mi boccia”, pensa. Alla fine il professore lo ferma e gli dice questo: “Digli così al bambino: lo faccio per essere felice”. Grande docente di vangelo e di vita!

 

Io mi giro verso Cristo perché è la strada per stare bene con me stesso, con gli altri, con il creato: è questa la speranza. Lui tira fuori da me, dal bruco che credevo di essere, la farfalla che sono; mi obbliga a diventare il meglio di ciò che posso diventare.

 

Lo so che c’è una crisi di speranza ed è per questo che c’è una crisi vocazionale. Un deficit vocazionale per un deficit di speranza e di libertà! Non per un deficit di analisi della situazione. Ma i nostri discorsi nelle nostre riunioni su cosa sono incentrati? Sull’analisi dei problemi o sul far cantare le speranze?

 

Allora che cosa spero per me e per la mia comunità e per la mia chiesa? Cosa spero per me e per il mondo? Spero libertà e onestà; spero bellezza per la mia vita e la vita di tutti. Spero una vita più affettuosa per me e per tutti. Ecco, basta che un uomo solo abbia speranza… Una poesia di Manuel Scorza Torres dice così: “Basta che un uomo solo sogni perché un’intera stirpe profumi di farfalle. Basta che uno solo dica di aver visto l’arcobaleno di notte perché anche il fango abbia gli occhi rilucenti”.

 

E il contrario della speranza è la paura! Noi camminiamo nell’esistenza accompagnati da due cagnolini: uno è la paura e l’altro è la speranza. Il cane al quale dai da mangiare di più diventa sempre più grande, l’altro rimane piccolo. Se io alimento la paura, se le do attenzione, le do ragione, la nutro continuerà a crescere. E’ una profezia malvagia che si auto avvera. Se invece custodisco e canto le mie speranze, se alimento la fiducia, sarà questa a diventare sempre più grande e a tirarmi dalla sua parte. Noi ci siamo rotolati nel sogno, un sogno di vangelo, ne abbiamo addosso l’odore. Pochi o tanti che siamo non importa ne profumiamo l’aria. Basta che una donna sola sogni perché un’intera razza profumi di farfalle.

 

E poi conservare libertà: la terza cosa. L’imprincipio della libertà è Dio che Turoldo chiamava “fonte di libere vite”. E nella bibbia, un libro che è pieno di strade di vento e all’avvicinarsi di Cristo si deve sentire aria di libertà. Ad ogni pagina del vangelo si aprono bocche di vento che portano aria fresca, ossigeno per il respiro della Chiesa. Noi siamo goccia di quella sorgente, scintilla di quel braciere, raggio di quel sole quando non siamo semplicemente dei buoni osservanti di cose già stabilite ma siamo esploratori sulle frontiere del meglio possibile per l’uomo che mi sta accanto.

 

Credo che noi religiosi in particolare, i cristiani, non siamo degli esecutori di ordini ma degli inventori di sentieri, di strade nel sole che ci conducano verso il cuore dell’uomo e ci conducano insieme verso Dio. Come dice il salmo del pellegrinaggio: Beato l’uomo, beata la donna che hanno sentieri nel cuore. I buoni esecutori non seducono nessuno! Gli inventori di strade sì!

 

Allora forse tutti soffriamo di imprigionamenti. E il fascino di Gesù, uomo libero, deve accendere trasalimenti in ciascuno. Non ci sono stereotipi che tengono; se ti fai lettore attento del vangelo, non puoi sfuggire all’incantamento per la libertà di Gesù. Leggi il vangelo, respiri a pieni polmoni la libertà. E la libertà mia ha un segreto: è quel pezzetto di Dio che è in te e che i veri maestri dello spirito ti invitano a scoprire e a proteggere e ad adorare. Se sei fedele a quel pezzetto di Dio in te, sei libero, libera dalla schiavitù degli altri e delle cose, dalle convenzioni abusate, dai codici senz’anima, dalle aspettative degli altri, dai giudizi. Per te contano gli occhi del tuo Signore, conta un piccolo pezzo di Lui in te. E il vangelo è questa lezione di libertà.

 

Il religioso è “casa di Dio” quando è fedele all’essenziale e quando è libero da tutto ciò che è secondario, transitorio, cascame culturale, apparato o apparenza. Libero per essere più fedele. Infedele alla lettera per essere fedele allo spirito. E questo succede quando ci liberiamo da due cose: da maschere e da paure.

 

Spesso noi, come gli adolescenti, abbiamo una faccia in comunità e un’altra faccia con gli amici fuori; una faccia con i nostri familiari e una con i superiori e le superiore. Non siamo liberi perché abbiamo paura; dei giudizi prima di tutto ma non ci viene chiesto di essere immacolati ma piuttosto di essere sempre in crescita (cfr. EG 151). Noi siamo al mondo o siamo al convento non per essere perfetti ma per essere veri, per essere incamminati verso speranza e libertà, verso il diventare “casa di Dio”. Allora avere una faccia sola e non avere paura, sperare molto: questo mi basterebbe per essere vero, per essere “casa di Dio”.

 

Concludo, con una frase di Madre Teresa di Calcutta che dice: “Tutto ciò che non serve pesa”. Quante cose inutili. Dai beni economici, alle grandi case, alle opere magnifiche, alle regoline, alle tradizioni. Noi siamo come Davide, quando deve affrontare Golia, Saul lo riveste con la sua armatura e Davide, poverino, dice: “Ma non posso camminare con tutte queste cose addosso!”. E noi siamo così nella vita religiosa. Troppe cose addosso, troppi apparati e apparenze che ci impediscono di camminare.

 

Liberarci! “Casa di Dio” siamo noi se conserviamo libertà e speranza e vi lascio un augurio che ho ricevuto pochi giorni fa da un lavavetri a un semaforo. E gli ho fatto l’offerta e allora lui, tutto contento, mi dice: “Che il Signore renda il tuo cuore spazioso”. Che bello! Allora io lo rilancio a voi: ci sia spazio nel cuore per la libertà e per la speranza. Che il Signore renda il vostro cuore spazioso per Dio e per l’uomo, spazioso e libero. Un cuore che spera e lo fa pregando così: “Ecco, Signore, io carezzo la vita perché la vita profuma di te”.


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 Esercizi Spirituali p. Ermes Ronchi

 

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Messaggio Cristiano
INCONTRO CON GLI STUDENTI IN OCCASIONE DEL GIUBILEO DEL MONDO EDUCATIVO - Aula Paolo VI, 30 ottobre 2025

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,
La pace sia con voi!

Cari ragazzi, care ragazze, buongiorno!

Che gioia incontrarvi! Grazie a voi! Ho atteso questo momento con grande emozione: la vostra compagnia, infatti, mi fa ricordare gli anni nei quali insegnavo matematica a giovani vivaci come voi. Vi ringrazio per aver risposto così, per essere qui oggi, per condividere le riflessioni e le speranze che, attraverso di voi, consegno ai nostri amici sparsi in tutto il mondo.

Vorrei cominciare ricordando Pier Giorgio Frassati, uno studente italiano che, come sapete, è stato canonizzato durante quest’anno giubilare. Col suo animo appassionato per Dio e per il prossimo, questo giovane santo coniò due frasi che ripeteva spesso, quasi come un motto, lui diceva: “Vivere senza fede non è vivere, ma vivacchiare” e ancora: “Verso l’alto”. Sono affermazioni molto vere e incoraggianti. Anche a voi, perciò, dico: abbiate l’audacia di vivere in pienezza. Non accontentatevi delle apparenze o delle mode: un’esistenza appiattita su quel che passa non ci soddisfa mai. Invece, ognuno dica nel proprio cuore: “Sogno di più, Signore, ho voglia di più: ispirami tu!”. Questo desiderio è la vostra forza ed esprime bene l’impegno di giovani che progettano una società migliore, della quale non accettano di restare spettatori. Vi incoraggio, perciò, a tendere costantemente “verso l’alto”, accendendo il faro della speranza nelle ore buie della storia. Come sarebbe bello se un giorno la vostra generazione fosse riconosciuta come la “generazione plus”, ricordata per la marcia in più che saprete dare alla Chiesa e al mondo.

Questo, cari ragazzi, non può rimanere il sogno di una persona sola: uniamoci allora per realizzarlo, testimoniando insieme la gioia di credere in Gesù Cristo. Come possiamo riuscirci? La risposta è essenziale: attraverso l’educazione, uno degli strumenti più belli e potenti per cambiare il mondo.

L’amato Papa Francesco, cinque anni fa, ha lanciato il grande progetto del Patto Educativo Globale, e cioè un’alleanza di tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nell’ambito dell’educazione e della cultura, per coinvolgere le giovani generazioni in una fraternità universale. Voi, infatti, non siete solo destinatari dell’educazione, ma i suoi protagonisti. Perciò oggi vi chiedo di allearvi per aprire una nuova stagione educativa, nella quale tutti — giovani e adulti — diventiamo credibili testimoni di verità e di pace. Per questo vi dico: siete chiamati a essere truth-speakers e peace-makers, persone di parola e costruttori di pace. Coinvolgete i vostri coetanei nella ricerca della verità e nella coltivazione della pace, esprimendo queste due passioni con la vostra vita, con le parole e con i gesti quotidiani.

In proposito, all’esempio di san Pier Giorgio Frassati unisco una riflessione di san John Henry Newman, un santo studioso, che presto sarà proclamato Dottore della Chiesa. Egli diceva che il sapere si moltiplica quando viene condiviso e che è nella conversazione delle menti che si accende la fiamma della verità. Così la vera pace nasce quando tante vite, come stelle, si uniscono e formano un disegno. Insieme possiamo formare costellazioni educative, che orientano il cammino futuro.

Da ex professore di matematica e fisica, permettetemi di fare con voi qualche calcolo. Avrete l’esame di matematica tra poco forse? Vediamo… Sapete quante stelle ci sono nell’universo osservabile? È un numero impressionante e meraviglioso: un sestilione di stelle – un 1 seguito da 21 zeri! Se le dividessimo tra gli 8 miliardi di abitanti della Terra, ogni uomo avrebbe per sé centinaia di miliardi di stelle. Ad occhio nudo, nelle notti limpide, possiamo scorgerne circa cinquemila. Anche se le stelle sono miliardi di miliardi, vediamo solo le costellazioni più vicine: queste però ci indicano una direzione, come quando si naviga per mare.

Da sempre i viaggiatori hanno trovato la rotta nelle stelle. I marinai seguivano la Stella Polare; i Polinesiani attraversavano l’oceano memorizzando mappe stellari. Secondo i contadini delle Ande, che ho incontrato da missionario in Perù, il cielo è un libro aperto che segna le stagioni della semina, della tosatura, dei cicli della vita. Persino i Magi hanno seguito una stella per arrivare a Betlemme ad adorare Gesù Bambino.

Come loro, anche voi avete stelle-guida: i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti, i buoni amici, bussole per non perdervi nelle vicende liete e tristi della vita. Come loro, siete chiamati a diventare a vostra volta luminosi testimoni per chi vi sta accanto. Ma, come dicevo, una stella da sola resta un punto isolato. Quando si unisce alle altre, invece, forma una costellazione, come la Croce del Sud. Così siete voi: ognuno è una stella, e insieme siete chiamati a orientare il futuro. L’educazione unisce le persone in comunità vive e organizza le idee in costellazioni di senso. Come scrive il profeta Daniele, «quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno» (Dn 12,3): che meraviglia: siamo stelle, sì, perché siamo scintille di Dio. Educare significa coltivare questo dono.

L’educazione, infatti, ci insegna a guardare in alto, sempre più in alto. Quando Galileo Galilei puntò il cannocchiale al cielo, scoprì mondi nuovi: le lune di Giove, le montagne della Luna. Così è l’educazione: un cannocchiale che vi permette di guardare oltre, di scoprire ciò che da soli non vedreste. Non fermatevi, allora, a guardare lo smartphone e i suoi velocissimi frammenti d’immagini: guardate al Cielo, guardate verso l’alto.

Cari giovani, voi stessi avete suggerito la prima delle nuove sfide che ci impegnano nel nostro Patto Educativo Globale, esprimendo un desiderio forte e chiaro; avete detto: “Aiutateci nell’educazione alla vita interiore.” Sono rimasto veramente colpito da questa richiesta. Non basta avere grande scienza, se poi non sappiamo chi siamo e qual è il senso della vita. Senza silenzio, senza ascolto, senza preghiera, perfino le stelle si spengono. Possiamo conoscere molto del mondo e ignorare il nostro cuore: anche a voi sarà capitato di percepire quella sensazione di vuoto, di inquietudine che non lascia in pace. Nei casi più gravi, assistiamo a episodi di disagio, violenza, bullismo, sopraffazione, persino a giovani che si isolano e non vogliono più rapportarsi con gli altri. Penso che dietro a queste sofferenze ci sia anche il vuoto scavato da una società incapace di educare la dimensione spirituale, non solo tecnica, sociale e morale della persona umana.

Da giovane, sant’Agostino era un ragazzo brillante, ma profondamente insoddisfatto, come leggiamo nella sua autobiografia, Le Confessioni. Egli cercava dappertutto, tra carriera e piaceri, e ne combinava di tutti i colori, senza però trovare né verità né pace. Finché non ha scoperto Dio nel proprio cuore, scrivendo una frase densissima, che vale per tutti noi: «Il mio cuore è inquieto finché non riposa in Te». Ecco allora che cosa significa educare alla vita interiore: ascoltare la nostra inquietudine, non fuggirla né ingozzarla con ciò che non sazia. Il nostro desiderio d’infinito è la bussola che ci dice: “Non accontentarti, sei fatto per qualcosa di più grande”, “non vivacchiare, ma vivi”.

La seconda delle nuove sfide educative è un impegno che ci tocca ogni giorno e del quale voi siete maestri: l’educazione al digitale. Ci vivete dentro, e non è un male: ci sono opportunità enormi di studio e comunicazione. Non lasciate però che sia l’algoritmo a scrivere la vostra storia! Siate voi gli autori: usate con saggezza la tecnologia, ma non lasciate che la tecnologia usi voi.

Anche l’intelligenza artificiale è una grande novità – una delle rerum novarum, cioè delle cose nuove – del nostro tempo: non basta tuttavia essere “intelligenti” nella realtà virtuale, ma bisogna essere umani con gli altri, coltivando un’intelligenza emotiva, spirituale, sociale, ecologica. Perciò vi dico: educatevi ad umanizzare il digitale, costruendolo come uno spazio di fraternità e di creatività, non una gabbia dove rinchiudervi, non una dipendenza o una fuga. Anziché turisti della rete, siate profeti nel mondo digitale!

A questo riguardo, abbiamo davanti un attualissimo esempio di santità: San Carlo Acutis. Un ragazzo che non si è fatto schiavo della rete, usandola invece con abilità per il bene. San Carlo unì la sua bella fede alla passione per l’informatica, creando un sito sui miracoli eucaristici, e facendo così di Internet uno strumento per evangelizzare. La sua iniziativa ci insegna che il digitale è educativo quando non ci rinchiude in noi stessi, ma ci apre agli altri: quando non ti mette al centro, ma ti concentra su Dio e sugli altri.

Carissimi, arriviamo infine alla terza nuova grande sfida che oggi vi affido e che sta al cuore del nuovo Patto Educativo Globale: la educazione alla pace. Vedete bene quanto il nostro futuro venga minacciato dalla guerra e dall’odio che dividono i popoli. Questo futuro può essere cambiato? Certamente! Come? Con un’educazione alla pace disarmata e disarmante. Non basta, infatti, far tacere le armi: occorre disarmare i cuori, rinunciando a ogni violenza e volgarità. In tal modo, un’educazione disarmante e disarmata crea uguaglianza e crescita per tutti, riconoscendo l’uguale dignità di ogni ragazzo e ragazza, senza mai dividere i giovani tra pochi privilegiati che hanno accesso a scuole costosissime e tanti che non accesso all’educazione. Con grande fiducia in voi, vi invito a essere operatori di pace anzitutto lì dove vivete, in famiglia, a scuola, nello sport e tra gli amici, andando incontro a chi proviene da un’altra cultura.

Per concludere, carissimi, il vostro sguardo non sia rivolto alle stelle cadenti, cui si affidano desideri fragili. Guardate ancora più verso l’alto, verso Gesù Cristo, «il sole di giustizia» (cfr Lc 1,78), che vi guiderà sempre nei sentieri della vita.

LEONE XIV