“I fantastici quattro infermieri” al tempo del coronavirus verrebbe da chiamarli per la passione, la professionalità, serietà e leggerezza con cui conducono il loro mestiere. Originari di Napoli, solo Stefania, 38 anni, è rimasta in città. Raffaele, 46 anni, opera a Lugano in Svizzera. Valerio, 43 anni, e Maria, 36 anni, a Como. Tutti e quattro sono figli d’arte: anche il papà Giorgio per 40 anni ha esercitato la stessa professione.
Valerio Mautone, Como
I nostri quattro non si sono tirati indietro nella battaglia contro il coronavirus e combattono ogni giorno in prima fila. L’ultimo a fare la scelta è stato Valerio. Dal reparto di Neurochirurgia del Sant’Anna di Como è arrivata la richiesta su base volontaria di trasferirsi nel nuovo reparto di rianimazione Covid. L’ultimo stadio, l’ultimo chilometro dove si decide sulla corsa della vita. Un esito mai scontato. Valerio sa cosa lo aspetta, almeno lo immagina. Bardature, turni estenuanti, mascherine. Dopo una notte di pensieri in cui era ben conscio di cosa lasciava e cosa avrebbe trovato, la mattina dopo offre la sua disponibilità. «Ho accettato – racconta – perché i miei fratelli erano già in prima fila e ho pensato che avrei aiutato delle persone sole, impaurite, disorientate. Ho scelto di mettere a rischio la mia vita, come un gesto d’amore, per salvare altre vite».
I “sopravvissuti”
La realtà è ben diversa dai numeri dati in una conferenza stampa che si riferiscono solo a guariti, contagiati e deceduti. Nel reparto ci sono anche «quelli che noi chiamiamo i sopravvissuti. Sono coloro – spiega Valerio – che hanno superato la terapia intensiva ma rimangono feriti nel corpo e nell’anima perché ci vuole tempo per riprendersi sul piano pneumologico, neurologico e mentale. Ci vuole una lunga riabilitazione». Gestire le emozioni, le relazioni umane è il compito più impegnativo. I pazienti arrivano in reparto soli, coscienti e disorientati. Fanno l’ultima chiamata a casa e poi vengono intubati. Comincia un viaggio nella terra di nessuno. Tutto si ferma. «Abbiamo pazienti in rianimazione anche da 30 giorni. Restano pronati “a pancia sotto” 18 ore al giorno e 6 ore supini. Il filo della comunicazione con l’esterno si interrompe e il medico chiama i parenti una sola volta al giorno. Quando una persona si sveglia, la prima cosa che chiede è il cellulare ma non hanno neanche la forza di prenderlo in mano. Lo facciamo noi e ripetiamo il loro labiale». Chi ce la fa? «Chi supera questa prova è un guerriero e ha forti motivazioni a restare in vita. Le persone già fragili non ce la fanno e più cresce l’età, in genere, più è difficile sopravvivere».
Risvegli
Finita l’intervista con Valerio qualche giorno dopo mi arriva un suo WhatsApp. «Ti voglio dare una bellissima notizia. Si è risvegliato il buon Carlo un omone grande e grosso, dopo 30 giorni in rianimazione. E non è l’unico. Pensavamo di accompagnarli lentamente nelle braccia del Signore e invece… Non ti nascondo che sono una persona molto razionale, sono un istruttore di scacchi, ma qui non ci sono calcoli che tengano. Qualcuno in alto ci sta aiutando».
Stefania Mautone, Napoli
Da Como ci spostiamo a Napoli dalla vulcanica Stefania, che si occupa di pazienti sospetti di coronavirus all’ospedale Pellegrini. «All’inizio – racconta – ero tentata di restare in casa perché ho una figlia, ma dopo una settimana mi sono detta: “Ma un giorno che gli racconto a mia figlia? Che sono scappata?” Mi sono affidata a Dio e ho cominciato». Nel suo reparto si effettuano le analisi per verificare se persone con i sintomi del coronavirus siano positivi. In caso affermativo li trasferiscono all’ospedale Cotugno. Non ci sono cure, medicine, esperienza su come affrontare il virus. L’unica arma è un surplus di anima. «Ritrovare l’umanità è l’unica cura. Raccogliamo abiti per i pazienti perché i parenti non possono entrare, facciamo le videochiamate. Parlo con loro solo con gli occhi e quando riesco a scambiare qualche parola gli canto dei classici della canzone napoletana. Se una donna, per esempio, si chiama Maria parte “Maruzzella, Maruzzè’ t’hê miso dint’a ll’uocchie ‘o mare…” o l’Ave Maria di Schubert. Così li tengo allegri con un po’ di leggerezza».
Maria Mautone, Como
All’ospedale Sant’Anna di Como lavora Maria nel reparto di Chirurgia generale trasformato in un reparto Covid sub intensivo. È un periodo molto duro a livello fisico ed emotivo. «Ho visto – spiega – l’inferno con i miei occhi e non ero abituata a vedere tutti questi morti. L’unico modo di stare vicino ai malati è con una carezza. Un paziente mi dice quanto gli manca l’aria fresca del vento sul volto. Mi è venuta l’idea di prendere un phon. L’accendo con una bassa temperatura e poca ventilazione e gli faccio arrivare una leggera brezza sulla faccia. “Mi sembrava proprio di stare all’aria aperta!” – è stato il suo ringraziamento. Per altri invento giochi, come per i miei bambini. “Grazie per la mezz’ora in allegria che mi hai fatto trascorrere!” – è la più grande soddisfazione».
Raffaele Mautone, Lugano
Dulcis in fundo il fratello maggiore. Raffaele abita a Como ma lavora a Lugano come infermiere in sala operatoria. Quando ha saputo che la sua città diventava zona rossa e i confini con la Svizzera stavano per chiudere ha vissuto una grande lotta interiore. Restare con la famiglia? Andare per continuare il suo lavoro ora più che mai necessario? Varca il confine 15 minuti prima della mezzanotte. All’ospedale lo aspettano a braccia aperte ma non può più rientrare per più giorni a casa finché si normalizza la situazione e viene trovato un accordo tra Italia e Svizzera per i frontalieri.
Da sinistra: Raffaele, il papà Giorgio, Valerio, Stefania, la mamma Mafalda, Maria.
«Vivo questo periodo – chiosa Raffaele – con un coinvolgimento emotivo molto forte perché non c’è cura. L’unica terapia è la somministrazione di umanità, è negli sguardi, in un gesto. Ci sono infermieri che tengono la mano a dei pazienti per ore, ascoltano i loro silenzi o le loro storie, gli portano dei dolci. Questo è il mondo dove vorrei vivere perché sono me stesso. Bisogna cambiare rotta sia verso le persone sia verso la natura. Ce lo ha insegnato questo virus e il nostro amore deve essere ancora più contagioso».