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GMG - LITURGIA PENITENZIALE CON I GIOVANI PRIVATI DELLA LIBERTÀ

Centro de Cumplimiento de Menores Las Garzas de Pacora (Panama) - Venerdì, 25 gennaio 2019

«Costui accoglie i peccatori e mangia con loro» (Lc 15,2), abbiamo appena ascoltato nel Vangelo. È ciò che mormoravano alcuni farisei, scribi, dottori della legge, piuttosto scandalizzati, piuttosto infastiditi dal modo in cui Gesù si comportava.

 

Con questa espressione cercavano di squalificarlo, screditarlo davanti a tutti, ma non fecero che evidenziare uno degli atteggiamenti di Gesù più comuni, più distintivi, più belli: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». E tutti siamo peccatori, tutti, e per questo Gesù ci accoglie con affetto, tutti noi che siamo qui; e se qualcuno non si sente peccatore, tra tutti noi che siamo qui, sappia che Gesù non lo riceverà, si perderà il meglio.

 

Gesù non ha paura di avvicinarsi a coloro che, per mille ragioni, portavano il peso dell’odio sociale, come nel caso dei pubblicani – ricordiamo che i pubblicani si arricchivano derubando il loro stesso popolo; essi suscitavano molta, molta indignazione –, oppure portavano l’odio sociale perché avevano fatto alcuni errori nella loro vita, degli errori e degli sbagli, qualche colpa, e così li chiamavano peccatori. Gesù lo fa perché sa che nel Cielo si fa più festa per un solo di quelli che sbagliano, dei peccatori convertiti, che per novantanove giusti che continuano bene (cfr Lc 15,7).

 

E mentre queste persone si limitavano a mormorare o a sdegnarsi, perché Gesù si incontrava con le persone segnate da qualche errore sociale, da qualche peccato, e chiudevano le porte della conversione, del dialogo con Gesù, Gesù si avvicina e si compromette, Gesù mette in gioco la sua reputazione e invita sempre a guardare un orizzonte capace di rinnovare la vita, di rinnovare la storia. Tutti, tutti abbiamo un orizzonte. Tutti. Qualcuno può dire: “Io non ce l’ho”. Apri la finestra, e lo troverai. Apri la finestra del tuo cuore, apri la finestra dell’amore che è Gesù, e lo troverai. Tutti abbiamo un orizzonte. Sono due sguardi ben diversi che si contrappongono: quello di Gesù e quello di questi dottori della legge. Uno sguardo sterile e infecondo – quello della mormorazione e del pettegolezzo, che sempre parla male degli altri e si sente giusto –, e un altro – che è quello del Signore – che chiama alla trasformazione e alla conversione, a una vita nuova, come tu hai detto poco fa [rivolto al giovane che ha fatto la testimonianza].

 

Lo sguardo della mormorazione e del pettegolezzo

E questo non vale solo per quei tempi, vale anche per oggi! Molti non sopportano e non amano questa scelta di Gesù, anzi, prima a mezza voce e alla fine gridando manifestano il loro disappunto cercando di screditare questo comportamento di Gesù e di tutti coloro che stanno con Lui. Non accettano, rifiutano questa scelta di stare vicino e di offrire nuove opportunità. Questa gente condanna una volta per tutte, scredita una volta per tutte e si dimentica che agli occhi di Dio loro stessi sono screditati e hanno bisogno di tenerezza, hanno bisogno di amore e di comprensione, ma non vogliono accettare. Non l’accettano. Con la vita della gente sembra più facile dare titoli e etichette che congelano e stigmatizzano non solo il passato ma anche il presente e il futuro delle persone. Mettiamo etichette alle persone: questo è così, quello ha fatto questo e ormai c’è e deve portarlo per il resto dei suoi giorni. Così è questa gente che mormora, i pettegoli, sono così. Etichette che, alla fine, non fanno altro che dividere: di qua i buoni, di là i cattivi; di qua i giusti, di là i peccatori. E questo, Gesù non lo accetta. Questa è la cultura dell’aggettivo: ci piace tanto “aggettivare” la gente, ci piace tanto. “Tu, come ti chiami?” – “Mi chiamo buono” – “No, questo è un aggettivo. Come ti chiami?”. Andare al nome della persona: chi sei, cosa fai, quali sogni hai, cosa sente il tuo cuore… Ai pettegoli questo non interessa; cercano subito un’etichetta per toglierseli di mezzo. La cultura dell’aggettivo che scredita la persona. Pensateci, per non cadere in questo [atteggiamento] che con tanta facilità ci viene offerto nella società.

 

Questo atteggiamento inquina tutto perché alza un muro invisibile che fa pensare che emarginando, separando e isolando si risolveranno magicamente tutti i problemi. E quando una società o una comunità si permette questo, e non fa altro che bisbigliare, spettegolare e mormorare, entra in un giro vizioso di divisioni, rimproveri e condanne. E’ interessante: queste persone che non accettano Gesù e quello che Gesù ci insegna, sono persone che litigano sempre tra loro, si condannano a vicenda, tra quelli che si chiamano giusti. E inoltre è un atteggiamento di emarginazione e di esclusione, di opposizione che fa dire irresponsabilmente come Caifa: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera» (Gv 11,50). Meglio che stiano custoditi tutti lì, che non vengano a dare fastidio, noi vogliamo vivere in pace. E’ duro questo, e questo ha dovuto affrontare Gesù, e questo affrontiamo anche noi oggi. Normalmente il filo si spezza nel punto più sottile: quello dei poveri e degli indifesi. E sono quelli che soffrono di più per queste condanne sociali, che non permettono di rialzarsi.

 

Come fa male vedere una società che concentra le sue energie nel mormorare e nello sdegnarsi piuttosto che nell’impegnarsi, impegnarsi per creare e opportunità e trasformazione!

 

Lo sguardo della conversione: l’altro sguardo

Invece, tutto il Vangelo è segnato da quest’altro sguardo che nasce né più né meno che dal cuore di Dio. Dio non ti abbandona mai. Dio non abbandona nessuno. Dio ti dice: “Vieni”. Dio ti aspetta e ti abbraccia, e se non sai la strada viene a cercarti, come ha fatto il pastore con le pecore. Invece, l’altro sguardo rifiuta. Il Signore vuole fare festa quando vede i suoi figli che ritornano a casa (cfr Lc 15,11-32). Così ha testimoniato Gesù manifestando fino all’estremo l’amore misericordioso del Padre. Abbiamo un Padre. Lo hai detto tu: mi è piaciuta questa tua confessione: abbiamo un Padre. Io ho un Padre che mi ama. E’ una cosa bella. Un amore, quello di Gesù, che non ha tempo per mormorare, ma cerca di rompere il cerchio della critica inutile e indifferente, neutra e asettica. “Ti ringrazio, Signore – diceva quel dottore della legge –, perché non sono come quello”. Non sono come quello. Questi che pensano di avere l’anima purificata dieci volte in un’illusione di vita asettica che non serve a niente. Una volta ho sentito un contadino che diceva una cosa che mi ha colpito: “L’acqua più pulita qual è? Sì, l’acqua distillata – diceva –. Lei sa, padre, che quando la bevo non sa di niente”. Così è la vita di quelli che criticano e spettegolano e si separano dagli altri: si sentono tanto puliti, tanto asettici che non sanno di niente, sono incapaci di invitare qualcuno, vivono curandosi di sé stessi, per farsi la chirurgia estetica nell’anima e non per tendere la mano agli altri e aiutarli a crescere. Che è quello che fa Gesù, che accetta la complessità della vita e di ogni situazione; l’amore di Gesù, l’amore di Dio, l’amore di Dio Padre – come hai detto tu – è un amore che inaugura una dinamica capace di inventare strade, offrire opportunità di integrazione e trasformazione, opportunità di guarigione, di perdono, di salvezza. E mangiando con pubblicani e peccatori, Gesù rompe la logica che separa, che esclude, che isola, che divide falsamente tra “buoni e cattivi”. E non lo fa per decreto o solo con buone intenzioni, nemmeno con volontarismi o sentimentalismo. Come lo fa Gesù? Creando legami, legami capaci di permettere nuovi processi; scommettendo e festeggiando ad ogni passo possibile. Per questo Gesù, quando Matteo si converte – lo troverete nel Vangelo – non gli dice: “Bene, d’accordo, complimenti, vieni con me”. No, gli dice: “Andiamo a festeggiare a casa tua”, e invita tutti i suoi amici, che erano, come Matteo, condannati dalla società, a fare festa. Il pettegolo, colui che divide, non sa fare festa perché ha il cuore amaro.

 

Creare legami, fare festa, è quello che fa Gesù. E in questo modo rompe con un’altra mormorazione non facile da scoprire e che “perfora i sogni” perché ripete come un sussurro continuo: “Non ce la farai, non ce la farai”. Quante volte voi avete sentito questo: “Non ce la farai”. Attenzione, attenzione: questo è come il tarlo che ti si mangia da dentro. Quando tu senti “non ce la farai”, datti uno schiaffone: “sì, ce la farò e te lo dimostrerò”. È la mormorazione interiore, il pettegolezzo interiore, che emerge in chi, avendo pianto il proprio peccato, e consapevole del proprio errore, non crede di poter cambiare. E questo succede quando si è intimamente convinti che chi è nato “pubblicano” deve morire “pubblicano”; e questo non è vero. Il Vangelo ci dice tutto il contrario. Undici dei dodici apostoli erano peccatori gravi, perché hanno commesso il peggiore dei peccati: hanno abbandonato il loro Maestro, altri lo hanno rinnegato, altri sono scappati via. Hanno tradito, gli apostoli, e Gesù è andato a cercarli a uno a uno, e sono quelli che hanno cambiato il mondo. A nessuno è capitato di dire: “non ce la farai”, perché avendo visto l’amore di Gesù dopo il tradimento, [dice]: “Ce la farò, perché Tu mi darai la forza”. Attenzione al tarlo del “non ce la farai”! Ci vuole molta attenzione.

 

Amici, ognuno di noi è molto di più delle “etichette” che gli mettono; è molto di più degli aggettivi che vogliono darci, è molto di più della condanna che ci hanno imposto. Così Gesù ci insegna e ci chiama a credere. Lo sguardo di Gesù ci provoca a chiedere e cercare aiuto per percorrere le vie del superamento. A volte la mormorazione sembra vincere, ma non credeteci, non ascoltatela. Cercate e ascoltate le voci che spingono a guardare avanti e non quelle che vi tirano verso il basso. Ascoltate le voci che vi aprono la finestra e vi fanno vedere l’orizzonte. “Ma è lontano!” – “Sì, ma ce la farai”. Guardalo bene e ce la farai! Ogni volta che viene il tarlo con il “non ce la farai”, rispondetegli da dentro: “Ce la farò”, e guardate l’orizzonte.

 

La gioia e la speranza del cristiano – di tutti noi, e anche del Papa – nasce dall’aver sperimentato qualche volta questo sguardo di Dio che ci dice: “tu fai parte della mia famiglia e non posso abbandonarti alle intemperie”. Questo è quello che Dio dice a ciascuno di noi, perché Dio è Padre – l’hai detto tu. “Tu sei parte della mia famiglia e non ti abbandonerò alle intemperie, non ti lascerò a terra sulla strada, no, non posso perderti per strada” – ci dice Dio, ad ognuno di noi, con nome e cognome – “io sono qui con te”. Qui? Sì, qui. Questo è aver sentito, come l’hai condiviso tu, Luis, che in quei momenti in cui sembrava che tutto fosse finito qualcosa ti ha detto: no!, non è tutto finito, perché hai uno scopo grande che ti permette di comprendere che Dio Padre era ed è con tutti noi e ci dona persone con cui camminare e aiutarci a raggiungere nuove mete.

 

E così Gesù trasforma la mormorazione in festa e ci dice: “Rallegrati con me! (cfr Lc 15,6), andiamo a festeggiare”. Nella parabola del figliol prodigo mi è piaciuto una volta che ho trovato una traduzione che diceva che il padre, quando vide il figlio che tornava a casa, disse: “Andiamo a festeggiare”, e lì è iniziata la festa. E una traduzione diceva: “E lì iniziò il ballo”. La gioia, la gioia con la quale siamo accolti da Dio con l’abbraccio del Padre. “Iniziò il ballo”.

 

Fratelli, voi fate parte della famiglia, voi avete molto da condividere. Aiutateci a sapere qual è il modo migliore per vivere e accompagnare il processo di trasformazione di cui, come famiglia, tutti abbiamo bisogno. Tutti!

 

Una società si ammala quando non è capace di far festa per la trasformazione dei suoi figli; una comunità si ammala quando vive la mormorazione che schiaccia e condanna, senza sensibilità, il pettegolezzo. Una società è feconda quando sa generare dinamiche capaci di includere e integrare, di farsi carico e lottare per creare opportunità e alternative che diano nuove possibilità ai suoi figli, quando si impegna a creare futuro con comunità, educazione e lavoro. Questa comunità è sana. E anche se può sperimentare l’impotenza di non sapere come, non si arrende e ritenta di nuovo. E tutti dobbiamo aiutarci per imparare, in comunità, a trovare queste strade, a tentare e ritentare ancora. È un patto che dobbiamo avere il coraggio di fare: voi, ragazzi, ragazze, i responsabili della vigilanza e le autorità del Centro e del Ministero, tutti, e le vostre famiglie, come pure gli operatori pastorali. Tutti, lottate, lottate – ma non tra di voi, per favore! –, per che cosa?, per cercare e trovare strade di inserimento e di trasformazione. E questo il Signore lo benedice. Questo il Signore lo sostiene e questo il Signore lo accompagna.

 

Tra poco proseguiremo con la celebrazione penitenziale, in cui tutti potremo sperimentare lo sguardo del Signore, che non vede un aggettivo, mai: vede un nome, guarda gli occhi, guarda il cuore. Non vede un’etichetta né una condanna, ma vede dei figli. Sguardo di Dio che smentisce le squalifiche e ci dà la forza di creare quei patti necessari per aiutarci tutti a smentire le mormorazioni, quei patti fraterni che permettono alla nostra vita di essere sempre un invito alla gioia della salvezza, alla gioia di avere un orizzonte davanti, alla gioia della festa del figlio. Andiamo su questa strada. Grazie.

 

APERTURA della GMG  -  Cari giovani, buon pomeriggio!

Che bello ritrovarci, e farlo in questa terra che ci accoglie con tanto colore e tanto calore! Riuniti a Panamá, la Giornata Mondiale della Gioventù è ancora una volta una festa, una festa di gioia e di speranza per la Chiesa intera e, per il mondo, una grande testimonianza di fede.

 

Mi ricordo che, a Cracoviaalcuni mi chiesero se sarei andato a Panamá, e io risposi: “Io non so, ma Pietro di sicuro ci sarà. Pietro ci sarà”. Oggi sono contento di dirvi: Pietro è con voi per celebrare e rinnovare la fede e la speranza. Pietro e la Chiesa camminano con voi e vogliamo dirvi di non avere paura, di andare avanti con questa energia rinnovatrice e questo desiderio costante che ci aiuta e ci sprona ad essere più gioiosi, più disponibili, più “testimoni del Vangelo”. Andare avanti non per creare una Chiesa parallela un po’ più “divertente” o “cool” in un evento per giovani, con un po’ di elementi decorativi, come se questo potesse lasciarvi contenti. Pensare così sarebbe mancare di rispetto a voi e a tutto quello che lo Spirito attraverso di voi ci sta dicendo.

 

Al contrario! Vogliamo trovare e risvegliare insieme a voi la continua novità e giovinezza della Chiesa aprendoci sempre a questa grazia dello Spirito Santo che tante volte opera una nuova Pentecoste (cfr Sinodo dedicato ai giovani, Documento finale, 60). E questo è possibile solo se, come abbiamo da poco vissuto nel Sinodo, sappiamo camminare ascoltandoci e ascoltare completandoci a vicenda, se sappiamo testimoniare annunciando il Signore nel servizio ai nostri fratelli; che è sempre un servizio concreto, si intende. Non è un servizio così, “di figurine”: è un servizio concreto. Se ci mettiamo a camminare, giovani, sempre giovani come nella storia dell’America. Penso a voi che avete cominciato a camminare per primi in questa Giornata, voi giovani della gioventù indigena, siete stati i primi in America e i primi a camminare in questo incontro. Un grande applauso, forte! E anche voi giovani discendenti di africani: anche voi avete fatto il vostro incontro e ci avete anticipato. Un altro applauso!

 

Bene. So che arrivare qui non è stato facile. Conosco gli sforzi, i sacrifici che avete fatto per poter partecipare a questa Giornata. Molti giorni di lavoro e di impegno, incontri di riflessione e di preghiera fanno sì che il cammino stesso sia la ricompensa. Il discepolo non è solamente chi arriva in un posto ma chi incomincia con decisione, chi non ha paura di rischiare e di mettersi a camminare. Se uno si mette a camminare, è già un discepolo. Se rimani fermo, hai perso. Cominciare a camminare, questa è la più grande gioia del discepolo, essere in cammino. Voi non avete avuto paura di rischiare e camminare. E oggi possiamo essere in festa perché questa festa è cominciata già da molto tempo in ogni comunità.

 

Abbiamo ascoltato poco fa nella presentazione, abbiamo visto dalle bandiere che veniamo da culture e popoli diversi, parliamo lingue diverse, usiamo vestiti diversi. Ognuno dei nostri popoli ha vissuto storie e circostanze diverse. Quante cose ci possono differenziare! Ma nulla di tutto ciò ci ha impedito di incontrarci, tante differenze non hanno impedito di incontrarci e di stare insieme, di divertirci insieme, di celebrare insieme, di confessare Gesù Cristo insieme. Nessuna differenza ci ha fermati. E questo è possibile perché sappiamo che c’è Qualcuno che ci unisce, che ci fa fratelli. Voi, cari amici, avete fatto tanti sacrifici per potervi incontrare e così diventate veri maestri e artigiani della cultura dell’incontro. Voi con questo diventate maestri e artigiani della cultura dell’incontro, che non è “Ciao, come va? Ciao, a presto”. No, la cultura dell’incontro è quella che ci fa camminare insieme con le nostre differenze ma con amore, tutti uniti nello stesso cammino. Voi, con i vostri gesti e i vostri atteggiamenti, coi vostri sguardi, i desideri e soprattutto la vostra sensibilità, voi smentite e screditate tutti quei discorsi che si concentrano e si impegnano nel creare divisione, quei discorsi che cercano di escludere ed espellere quelli che “non sono come noi”. Come in vari Paesi dell’America diciamo: “Non sono GCU [gente como uno, gente come noi]. Voi smentite questo. Tutti sono persone come noi, tutti con le nostre differenze. E questo perché avete quel fiuto che sa intuire che «il vero amore non annulla le legittime differenze, ma le armonizza in una superiore unità» (Benedetto XVI, Omelia, 25 gennaio 2006). Lo ripeto: “Il vero amore non annulla le legittime differenze, ma le armonizza in una superiore unità”. Sapete chi ha detto questo? Sapete? Papa Benedetto XVI, che ci sta guardando, e gli facciamo un applauso, gli mandiamo un saluto da qui! Lui ci sta guardando alla televisione. Un saluto, tutti, tutti con le mani, a Papa Benedetto! Al contrario, sappiamo che il padre della menzogna, il demonio, preferisce sempre un popolo diviso e litigioso. Lui è il maestro della divisione, e ha paura di un popolo che impara a lavorare insieme. E questo è un criterio per distinguere le persone: i costruttori di ponti e i costruttori di muri. I costruttori di muri che seminando paura cercano di dividere e di impaurire le persone. Voi invece volete essere costruttori di ponti. Cosa volete essere? [i giovani rispondono: “Costruttori di ponti!”] Avete imparato bene, mi piace!

 

Voi ci insegnate che incontrarsi non significa mimetizzarsi, né che tutti pensano la stessa cosa o vivere tutti uguali facendo e ripetendo le stesse cose: questo lo fanno i pappagalli. Incontrarsi vuol dire saper fare un’altra cosa: entrare nella cultura dell’incontro, è una chiamata e un invito ad avere il coraggio di mantenere vivo e insieme un sogno comune. Abbiamo tante differenze, parliamo lingue differenti. Tutti ci vestiamo in modo diverso ma, per favore, puntiamo ad avere un sogno in comune. Questo sì lo possiamo fare. E questo non ci annulla, ci arricchisce. Un sogno grande e un sogno capace di coinvolgere tutti. Il sogno per il quale Gesù ha dato la vita sulla croce e lo Spirito Santo si è riversato e ha marchiato a fuoco il giorno di Pentecoste nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, nel cuore di ciascuno, nel tuo, nel tuo, nel tuo…, nel mio, anche nel tuo – lo ha impresso nella speranza che trovi spazio per crescere e svilupparsi. Un sogno, un sogno chiamato Gesù, seminato dal Padre: Dio come Lui, come il Padre, inviato dal Padre con la fiducia che crescerà e vivrà in ogni cuore. Un sogno concreto, che è una Persona, che scorre nelle nostre vene, fa trasalire il cuore e lo fa sussultare ogni volta che ascoltiamo: «Amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli». Come si chiama il nostro sogno? [i giovani rispondono: “Gesù!”] Non sento… [ripetono: “Gesù!”] Non sento…[più forte: “Gesù!”]

 

Un santo di queste terre – ascoltate questo – un santo di queste terre amava dire: «Il cristianesimo non è un insieme di verità da credere, di leggi da osservare, o di proibizioni. Il cristianesimo visto così non è per nulla attraente. Il cristianesimo è una Persona che mi ha amato tanto, che desidera e chiede il mio amore. Il cristianesimo è Cristo» (S. Oscar Romero, Omelia, 6 novembre 1977). Lo diciamo tutti insieme? [insieme ai giovani] Il cristianesimo è Cristo. Un’altra volta: Il cristianesimo è Cristo. Un’altra volta: È Cristo! È portare avanti il sogno per cui Lui ha dato la vita: amare con lo stesso amore con cui ci ha amato. Non ci ha amato a metà, non ci ha amato un pochino. Ci ha amato totalmente, ci ha colmati di tenerezza, di amore, ha dato la sua vita.

 

Ci domandiamo: Che cosa ci tiene uniti? Perché siamo uniti? Che cosa ci spinge ad incontrarci? Sapete che cos’è che ci tiene uniti? È la certezza di sapere che siamo stati amati con un amore profondo che non vogliamo e non possiamo tacere; un amore che ci provoca a rispondere nello stesso modo: con amore. È l’amore di Cristo quello che ci spinge (cfr 2 Cor 5,14).

 

Vedete: un amore che unisce è un amore che non si impone e non schiaccia, un amore che non emargina e non mette a tacere e non tace, un amore che non umilia e non soggioga. È l’amore del Signore, amore quotidiano, discreto e rispettoso, amore di libertà e per la libertà, amore che guarisce ed eleva. È l’amore del Signore, che sa più di risalite che di cadute, di riconciliazione che di proibizione, di dare nuova opportunità che di condannare, di futuro che di passato. È l’amore silenzioso della mano tesa nel servizio e nel donarsi: è l’amore che non si vanta, che non si pavoneggia, l’amore umile, che si dà agli altri sempre con la mano tesa. Questo è l’amore che ci unisce oggi.

 

Ti chiedo: credi in questo amore? [rispondono: “Sì!”] E faccio un’altra domanda: credi che questo un amore “vale la pena”? Gesù una volta, a una persona che aveva fatto una domanda, alla fine rispose: “Se tu credi questo, va’ e fa’ lo stesso”. Nel nome di Gesù io vi dico: andate e fate lo stesso. Non abbiate paura di amare, non abbiate paura di questo amore concreto, di questo amore che ha tenerezza, di questo amore che è servizio, di questo amore che dà la vita.

 

E questa è stata la stessa domanda e la chiamata che ha ricevuto Maria. L’angelo le domandò se voleva portare questo sogno nel suo grembo, se voleva renderlo vita, renderlo carne. Maria aveva l’età di tante di voi, l’età di tante ragazze come voi. Disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Chiudiamo gli occhi, tutti, e pensiamo a Maria. Non era stupida, sapeva quello che sentiva il suo cuore, sapeva che cos’era l’amore, e ha risposto: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». In questo breve momento di silenzio, in cui Gesù dice a ognuno – a te, a te, a te –: “Te la senti? Vuoi?”. Pensa a Maria e rispondi: “Voglio servire il Signore. Avvenga per me secondo la tua parola”. Maria ha saputo dire “sì”. Ha avuto il coraggio di dare vita al sogno di Dio. E questo è quello che oggi ci chiede: Vuoi dare carne con le tue mani, i tuoi piedi, il tuo sguardo, il tuo cuore al sogno di Dio? Vuoi che sia l’amore del Padre ad aprirti nuovi orizzonti e a portarti per sentieri mai immaginati e pensati, sognati o attesi, che rallegrino e facciano cantare e danzare il cuore?

 

Abbiamo il coraggio di dire all’angelo, come Maria: “Eccoci, siamo i servi del Signore, avvenga per noi…”? Non rispondete adesso, ognuno risponda nel suo cuore. Ci sono domande a cui si risponde solo in silenzio.

 

Cari giovani, questa Giornata non sarà fonte di speranza per un documento finale, un messaggio concordato o un programma da eseguire. No, non sarà questo. Quello che darà più speranza in questo incontro saranno i vostri volti e una preghiera. Questo darà speranza. Col volto con cui tornerete a casa, col cuore cambiato con cui tornerete a casa, con la preghiera che avete imparato a dire con questo cuore cambiato. La cosa che darà più speranza in questo incontro saranno i vostri volti, la vostra preghiera. E ognuno tornerà a casa con la nuova forza che si genera ogni volta che ci incontriamo con gli altri e con il Signore, pieni di Spirito Santo per ricordare e mantenere vivo quel sogno che ci fa fratelli e che siamo chiamati a non lasciar congelare nel cuore del mondo: dovunque ci troveremo, qualsiasi cosa staremo facendo, potremo sempre guardare in alto e dire: “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”. Volete ripeterlo con me? “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”. [insieme ai giovani] “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”. Più forte, siete rauchi. “Signore, insegnami ad amare come tu ci hai amato”.

 

Bene. E dato che vogliamo essere buoni e educati, non possiamo terminare questo primo incontro senza ringraziare. Grazie a tutti coloro che hanno preparato con grande entusiasmo questa Giornata Mondiale della Gioventù, tutto questo. Grazie, forte! Grazie per aver avuto il coraggio di costruire e di ospitare, per aver detto “sì” al sogno di Dio di vedere i suoi figli riuniti. Grazie a Mons. Ulloa e a tutti i suoi collaboratori per aver aiutato a far sì che oggi Panamá sia non solo un canale che collega i mari, ma anche un canale in cui il sogno di Dio continua a trovare altri piccoli canali per crescere e moltiplicarsi e irradiarsi in tutti gli angoli della terra.

 

Amici, amici e amiche, Gesù vi benedica! Ve lo auguro con tutto il cuore. Santa Maria la Antigua vi accompagni e vi protegga, perché possiamo dire senza paura, come lei: «Eccomi. Avvenga di me».

Grazie!



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco