Sabato 20 Aprile 2024
Contempliamo qui le meraviglie del creato
Amore al fratello!ContattiLa Parola di DioBlog
Letture e meditazioni


Mio fratello Zaccheo

Nessuno può darsi per perduto

Risultati immagini per zaccheo per bambini giochi

Il Signore Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia.
 
Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». (Mt 19, 1-10)
 
Zaccheo è Suo fratello. Lo sa, lo sente, lo vede. Non basta la massa di macerie morali che una vita di truffe e ruberie ha ammassato davanti al piccolo pubblicano. Non è sufficiente il fango che il pregiudizio popolare e il tribunale religioso gli avevano gettato addosso. Non è così accecante il luccichio delle ricchezze di cui Zaccheo si era coperto. Il Suo è un occhio penetrante. Egli vede.
 
Dietro le macerie, il fango, il luccichio c’è un volto che conosce. Un volto in cui si riconosce. Quello è un figlio d’uomo, un figlio di Abramo, un figlio di Dio. Tanto quanto Lui. Sangue del Suo sangue, in fondo. Non per la discendenza, ma perché su quell’uomo, come su ogni altro, è risuonata la parola primigenia: «È davvero cosa molto buona» (Gen 1, 31). È stirpe della Sua stessa stirpe. Desiderato, benedetto, amato dal Padre. Zaccheo è suo fratello.
 
«Va a passare la notte da un peccatore». Loro non vedono. Non importa. Lui sì, ed è ciò che basta. E va a passarci la notte, come quando si è di casa, come quando c’è l’intimità e la confidenza di un destino comune. Nessuna toccata e fuga. Come fosse sempre stato lì, come non dovesse mai più andar via. Prima ancora che Zaccheo manifesti una parvenza di pentimento, prima che possa anche solo iniziare a rimediare al male compiuto, la Salvezza – la infinita, volontà di Salvezza, sì: infinita! – ha già preso la via della sua dimora.
 
Perché il riscatto di Zaccheo non sta in una nuova opportunità offerta e nemmeno nell’occasione di restituire il maltolto. Il riscatto di Zaccheo è tutto in quel «Devo venire a casa tua», nell’impellente bisogno di avere tutti con sé che proviene dal Padre e trabocca nel Figlio verso ogni Suo fratello. Il «Tu» che Gesù rivolge a Zaccheo ha lo stesso spessore della Parola Creatrice: «Tu sei cosa buona. Qualunque cosa tu abbia fatto, comunque sia la strada che hai intrapreso, chiunque sia l’uomo che sei diventato, Tu per me sei cosa buona».
 
Un tesoro da non perdere. Un patrimonio destinato a grandi cose. Un capitale su cui investire senza timore. Il resto non è che conseguenza del tracimare del fiume di Fiducia di Dio nel deserto arido della vita di Zaccheo. Non il prezzo per guadagnarsi il perdono e nemmeno lo slancio infantile di chi vuol dimostrare di aver imparato la lezione: la generosità di Zaccheo è solo il segno esteriore di un uomo che, in quel «Tu» ha riscoperto la propria dignità di immagine del Padre, ha riassaporato la propria libertà di figlio e ha risentito il fascino delle grandi cose a cui è destinato dalle origini.
 
Il pubblicano non ha più bisogno di difendersi da Dio e dagli uomini con le armi dell’astuzia e il potere della ricchezza. Libero, finalmente, si libera di ciò che ormai è solo un peso. Bello, come una volta, splende dello stesso splendore del Padre e del Figlio. Suo fratello.

Lo straordinario annuncio di questo Vangelo non è la radicale conversione di Zaccheo, ma l’inarrestabile affermazione di fiducia e dignità che Gesù fa nei suoi confronti, prima di ogni segnale di pentimento e senza che nulla giustifichi il rischio fiduciale. Non affanniamoci a cercare tra le righe di Luca e nel comportamenti di Zaccheo spiegazioni psicologizzanti: «Ma Zaccheo aveva il cuore aperto… Ma in fondo cercava già Cristo… Ma certamente aveva un grande desiderio di cambiamento… Però l’ha accolto…».
 
Luca tace, perciò rispettiamolo. Sappiamo solo di una curiosità viva e vivace del pubblicano, forse qualcosa di più, considerato come si espone al ridicolo. Ma comunque nulla che possa somigliare a un vago brandello di fede, nemmeno quella pur bella ed entusiastica accoglienza riservata a Gesù. A Luca, infatti, non interessa troppo Zaccheo.
 
Il centro è un altro e sta tutto in quell’ultimo versetto sconcertante e scandaloso: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto». La categoria dei perduti da Gesù in poi è in via di estinzione. Nessuno può darsi per perduto e nessuno può essere dato per perso.
 
Il centro del brano è il riscatto operato da Cristo affermando l’incancellabile dignità di quell’uomo. L’incredibile fiducia nella bontà originale dell’uomo, in quella traccia divina fondamentale, in quella scintilla di Spirito primigenio che lo dispone alla comunione con Dio, con i fratelli, con il creato secondo l’economia del Regno.
 
Lo sconcertante annuncio di questo Vangelo è un Padre che crede nella bellezza dei figli al di là di ogni ragionevole dubbio. È forse più facile credere nell’esistenza e nella bontà del Dio invisibile che nella bellezza dell’uomo visibile.
 

 Il Vangelo, però, certo che invita a credere in Lui come Padre, ma ricordandoci che non c’è altro modo reale, serio e radicale che il credere nella bellezza e bontà del fratello, giocando in lui la fiducia che Cristo ha giocato, vedendo in lui la dignità della figliolanza, sporgendosi con rispetto sull’abisso della sua libertà, essendo per lui quel «Tu» che paga per il suo riscatto e la sua liberazione. Ancora una volta: si crede nel Padre per celebrarLo come tale nell’uomo, chiamandolo “fratello” e dicendolo “cosa buona” al di là di ogni ragionevole dubbio.

 Cristiano Mauri

 

 

Voi sapete cos’è la Messa, vero?

La Messa è la più grande preghiera che possiamo fare, è il più profondo contatto con Dio, è la fonte della vita cristiana perché è il Sacramento che Dio ci ha lasciato, che Gesù ci ha lasciato: il Sacramento dell’Unità, dell’Amore, della Comunione con Lui e della Comunione fra di noi.

Se si pensa, adesso, concretamente alla Messa, a quello che avviene ogni giorno all’altare, allora vale la pena di ricordarselo cosa avviene su quell’altare, perché, se capiamo bene che cosa avviene, allora quella Messa frutta dentro di noi in un modo naturalmente diverso rispetto al fatto che la domenica dobbiamo andare alla Messa per tradizione, eccetera, eccetera.

 

Io penso che, per capire la Messa, bisogna tornare indietro  all’Antico Testamento e capire che cosa ha fatto Gesù, che era un ebreo, quella sera del Giovedì Santo, quando ha istituito l’Eucarestia.

Lui, da ebreo, ha fatto niente altro che la celebrazione pasquale che si faceva in tutte le famiglie ebraiche.

E cos’era la celebrazione pasquale? Era la celebrazione, non si può dire il ricordo, è molto più del ricordo, è la memoria, dicono gli ebrei, e memoria, anche nel senso biblico cristiano, vuol dire rendere presente quella cosa, non vuol dire solamente ricordarla, vuol dire renderla presente adesso, viverla adesso, concretamente, viverla con tutte le grazie che a quella cosa sono collegate.

Gesù ha fatto la celebrazione pasquale, cioè ha fatto ciò che in ogni famiglia ebraica avveniva in quei giorni. In quei giorni, avveniva che il padre di famiglia raccoglieva i suoi e ricordavano l’uscita dall’Egitto e il Patto con Dio che era stato fatto tre mesi dopo l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto, ai piedi del Sinai, dopo che Dio aveva parlato a Mosè ed aveva dato a lui per il popolo il Decalogo, la Sua volontà, la Sua Parola.

Uscendo dall’Egitto, il popolo ha vissuto il sacrificio dell’agnello: tutti hanno mangiato l’agnello ed hanno mangiato i pani  non lievitati, che sono il segno della sofferenza della schiavitù.

Questo pane non lievitato significava infatti il pane della sofferenza. Non lievitato per la fretta della partenza, ma anche non lievitato per tutti i limiti che c’erano: dunque il pane che ricordava la sofferenza della schiavitù.

L’agnello pasquale, il sacrificio dell’agnello che gli ebrei hanno mangiato la notte della partenza e il pane ricordano la sofferenza e il sacrificio della schiavitù dell’Egitto.

Sono partiti e sono andati al Sinai: nel Sinai, il fatto straordinario dell’incontro di Dio con Mosè, la consegna della legge la ricostituzione del nuovo popolo eletto che con la schiavitù, portato via da Dio, è stato ricostituito Suo popolo. Ci sono frasi meravigliose della scrittura: proprio in quel momento Mosè dice “Tu sei il popolo di Dio, tu sei la nazione santa, il popolo sacerdotale. Quindi è il popolo nuovo.

In quel momento, dopo tre mesi dall’uscita dall’Egitto, Mosè, dopo aver dato al popolo le tavole della legge come volontà di Dio, ha fatto costruire, per ordine di Dio, un altare, la pietra dell’altare e attorno all’altare ha eretto dodici pietre, dodici stele, che significavano le dodici tribù d’Israele ed ha tenuto un sacrificio. Con il sangue di questo sacrificio, agnello o altro che fosse, ha dovuto Mosè, per ordine di Dio, aspergere l’altare e le dodici pietre.

Voleva dire questo: ogni volta che gli ebrei dovevano fare un contratto, un trattato, un patto, aspergevano le due parti contraenti versando il sangue della vittima. Il sangue, per gli ebrei, era il segno della vita.

E questa aspersione voleva dire: “Adesso questo patto va in vigore”; il sangue della vita metteva in vigore questo trattato, questo patto.

Mosè ha stabilito, per ordine di Dio, il Patto Nuovo tra il popolo di Dio, aspergendo l’altare, che rappresentava Dio, e le dodici pietre che rappresentavano le dodici tribù d’Israele. Questo è il Patto della Nuova Alleanza dopo il primo patto che Dio aveva fatto con Abramo, il patto che è a base della vita del popolo eletto; e di questo patto ha vissuto il popolo poi nella sua peregrinazione sino all’arrivo alla terra promessa e tutti i secoli seguenti.

E’ molto importante ricordare che in quel momento Mosè ha detto al popolo: “Questa celebrazione che abbiamo fatto adesso qui, la dovrete rifare ogni anno; e questo lo farete in memoria di questa uscita dall’Egitto e di questo Nuovo Patto.

In memoria vuol dire rivivendo “la vostra uscita dalla schiavitù e rivivendo completamente il vostro patto con Dio”. E questo si faceva in ogni anno, appunto, in ogni famiglia ebraica: era la celebrazione pasquale, la celebrazione dell’uscita, del passaggio dalla schiavitù alla terra promessa.

 

Ecco, Gesù non ha fatto altro che fare questo atto, questa cena di celebrazione pasquale che ogni famiglia ebraica, ogni capofamiglia faceva, solo che ha dato a questa celebrazione il vero significato: l’ha compiuta, l’ha portata a compimento nel significato che aveva nel piano di Dio.

Perché?

Lui era il pane della sofferenza, il Suo corpo sacrificato per noi è diventato il pane della sofferenza. Dice infatti: “Questo è il mio Corpo e poi per questo passa il calice. Nella celebrazione ebraica, veniva, dopo la cena, il passaggio di questo calice, che ricordava l’Alleanza, e Gesù dice; “Questo è il calice del Mio sangue – non è più il sangue dell’agnello – è il calice del Mio sangue per la Nuova ed eterna Alleanza”.

Lui ricordava espressamente l’Alleanza del Sinai perché era il Patto tra Dio ed il popolo eletto, ma Lui adesso iniziava la vita del Nuovo Popolo Eletto, il popolo cristiano, i Suoi, e perciò ha detto: “Questo è il calice del Mio sangue, per la Nuova ed Eterna Alleanza, prendete e bevetene tutti … fate questo in memoria di me”.

Paolo aggiunge nella sua descrizione dell’Eucarestia: “Ogni volta che voi spezzerete questo pane e berrete questo calice, annunziate la morte del Signore, finché Egli verrà nell’ultimo giorno”.

Annunziate vuol dire: “Voi vivete la morte e la resurrezione del Signore”.

Ecco, questa è la Messa.

 

Ci sarebbero da dire delle cose enormi a questo riguardo.

Ad esempio: dalle tre in poi di quel venerdì pomeriggio, fino alla calata del sole, avveniva sulla spianata del tempio di Gerusalemme la macellazione degli agnelli per la celebrazione pasquale.

Questo avveniva il venerdì pomeriggio. Il venerdì Gesù, il nuovo agnello della Nuova Alleanza, è morto in croce e, probabilmente (dicono gli studiosi) dal piccolo colle che era appena appena fuori dalle mura, si potevano vedere molto bene sul piazzale del tempio questi agnelli che venivano sgozzati per la celebrazione pasquale del giorno dopo.

In ogni famiglia, i capifamiglia dovevano portare il loro agnello, che doveva essere ammazzato nel tempio perché questo agnello era la celebrazione santa di tutto il popolo e doveva essere immolato nel tempio da parte del sacerdote, perché quello che avveniva nelle famiglie era la funzione sacerdotale del popolo eletto.

E Gesù sembra che abbia potuto vedere dalla Sua croce questa scena sul piazzale del tempio.

Immaginiamoci!!! E noi sappiamo che era Lui l’Agnello del Nuovo Testamento il cui sangue era il nuovo Patto del Sinai, il Patto del Nuovo Testamento, per la pace eterna, definitiva, fra l’uomo e Dio, fra il nuovo popolo di Dio e Dio.

Ecco, se pensiamo che nella Messa avviene questo e che Gesù ha anticipato la istituzione dell’Eucarestia, cioè ha celebrato con i suoi discepoli la morte e la resurrezione - e anche qui, celebrato vuol dire ha reso presente quella sera con i discepoli la Sua morte e la Sua resurrezione, perché Parola di Dio è Parola di Dio, perché se Gesù dice: “Questo è il Mio corpo, prendete e mangiate”, quello è un fatto, è reale, avviene in quel momento. E Lui spezza il Suo corpo in quel momento, e lo stesso per il Suo sangue. Quindi quella cena è stata la Sua morte e la Sua resurrezione nel segno sacramentale, ma reale, che è avvenuta storicamente il giorno dopo la cena,che era il giorno stabilito dalla legge mosaica per l’uccisione dell’agnello pasquale.

E quella cerimonia, quella celebrazione facciamo noi adesso: è quella della Messa.

 

Ditemi voi se noi siamo alla Messa in questa disposizione, cosa è la Messa per noi. E allora sappiamo che la Messa di quel giorno è veramente il centro della mia giornata ed io ho veramente dentro di me il corpo di Cristo che mi dà la vita, che ha dato la vita al popolo nuovo della Nuova Alleanza e il Suo sangue che ha fatto il Patto con Dio, fra me e Dio, eterno, che non tramonterà più.

Se io so questo - nonostante io sia così limitato e che pensi ai miei denti e alle mie incongruenze e a tutto quello a cui potrei pensare - quella Messa mi fa risorgere giorno per giorno. E allora, come faccio a mancare alla Messa un giorno?

Voi capite che, se proprio non ho la possibilità, allora Dio non lo pretende, ma se ho la possibilità, allora faccio pazzie pur di andare a vivere la morte e la resurrezione del Signore in quel giorno, perché è la mia vita.

Cosa porto io ai miei prossimi dopo al lavoro, se non porto il Signore risorto, se non vivo io continuamente con Lui la Sua morte, ma anche la Sua resurrezione?

               

 

«L’Eucaristia sorgente della missione. Nella tua Misericordia a tutti sei venuto incontro»: su questo tema è chiamata a riflettere la Chiesa italiana nel Congresso eucaristico nazionale che la raduna a Genova, nel cuore del Giubileo straordinario della Misericordia. Grazia su grazia! Nell’argomento scelto si legge l’ansia evangelizzatrice della Chiesa in un mondo invaso da fermenti di neopaganesimo, come pure da un crescente indifferentismo e da un dilagante individualismo che si manifestano nelle tante 'porte chiuse', là dove dovrebbero esserci case accoglienti, nei tanti muri che si innalzano, là dove si dovrebbero costruire ponti. 



Ma l’Amore non sarà mai sconfitto. A mantenerlo vivo Gesù stesso si è dato nel Sacramento dell’Eucaristia. La sua presenza in questo 'frammento' di pane consacrato è medicina per i cuori spezzati, per le famiglie divise, per la società conflittuale di ogni tempo e luogo. Il Pane di vita divina può riplasmare la povera argilla umana. A tutti, infatti, è venuto incontro il Misericordioso, Colui che, nato Uomo tra gli uomini, è passato per le strade della Palestina beneficando e risanando; a tutti anche oggi viene incontro bussando instancabilmente alla porta dei nostri cuori. Ancora di più: Egli ormai rimane sempre con noi. 



Allora folle di poveri lo seguivano, non solo per i miracoli da Lui compiuti ma perché erano attratti dal fascino della sua Persona, dall’autorevolezza della sua Parola, dalla bontà e mitezza del suo comportamento, vedendolo chinarsi misericordioso sulle loro miserie.



E noi, oggi, sappiamo riconoscerlo? Instancabile e silenzioso Pellegrino, Egli cammina al nostro fianco, si fa nostro compagno di viaggio sulle strade delle nostre esistenze, ma forse il ritmo serrato e concitato dei nostri impegni, l’ansia del fare, del correre, il 'sovraffollamento' di tanti pensieri, immagini, sentimenti che fanno ressa nei nostri cuori ci impediscono di scorgerlo, come di abbracciare con uno sguardo fraterno le persone che incontriamo, che ci passano accanto, che lavorano con noi e che forse attendono un piccolo aiuto, un semplice sorriso. 



Ecco, di fronte a questa situazione globale il Congresso di Genova più che un approfondimento teologico o pastorale sull’Eucaristia vuole essere un invito a un nuovo stile di vita, dove il primato sia dato a Dio e non all’'io': uno stile di vita più contemplativo, più pacato, più silenzioso, in cui ci sia tempo per fermarsi, stare in silenzio e adorare, ossia per accostare la bocca del cuore al Cuore divino, per 'respirare Cristo'. Perché ciò avvenga bisogna tenere fisso lo sguardo su Gesù e lasciarsi da Lui attirare nelle sue vie di libertà e di amore. Come ai discepoli di Emmaus, Egli si rende a noi presente nella Sacra Scrittura; bisogna ascoltarla, leggerla, custodirla e attuarla per incontrare Lui, vivere di Lui, acquisire i suoi sentimenti e i suoi pensieri; sentirsi ardere il cuore d’amore per Dio e per i fratelli. Ancora di più, Egli è presente e vivo nel Sacramento dell’Eucaristia. 



Per continuare a rimanere con noi ha scelto questa realtà sacramentale così povera, umile, quasi insignificante: un frammento di pane, che tanto facilmente nella nostra società consumistica viene sciupato, gettato via. Forse anche noi siamo tra quelli... Eppure sappiamo che milioni di persone muoiono di fame. Fame del pane per la vita del corpo, ma soprattutto fame di quel Pane vivo che è Dio. «O umiltà sublime e sublimità umile - esclamava san Francesco d’Assisi - che il Signore dell’universo e Figlio di Dio abbia a umiliarsi così da nascondersi sotto la piccola figura del pane per la nostra salute! Guardate, fratelli, l’abbassamento di Dio, ed effondete davanti a lui i vostri cuori». 



Ecco l’adorazione! Consapevole di avere nell’Eucaristia il suo inestimabile tesoro, la Chiesa non potrà mai rinunciare a circondarla del culto che le è dovuto: l’adorazione. Nel canto eucaristico «Adoro Te devote» è espresso lo stupore per il dono inestimabile di questa presenza sacramentale di Cristo Redentore e mai basterebbero le parole per farne comprendere la grandezza nella apparente piccolezza. Proprio perché gli uomini in precipitosa corsa dietro molte altre cose fuggevoli possano essere fermati e posti davanti all’essenziale, davanti a Colui che è il Signore del tempo e della storia, occorre continuamente ricordare e proclamare che a Lui spetta l’omaggio del tempo, in totale gratuità, come pure l’omaggio di tutto ciò che di più bello esiste nel creato. 



Del resto proprio nel culto divino e nell’adorazione l’uomo si eleva alla più grande dignità. Il tempo che riserviamo all’Adorazione eucaristica non è certo un tempo sottratto ai nostri impegni, ai nostri doveri di cristiani, di discepoli che vogliono essi stessi diventare 'eucaristia', pane donato per la vita degli altri. Al contrario, prolungate soste o anche solo brevi ma intensi istanti di adorazione davanti al Sacramento, sono momenti preziosi per «più 'imparare' Dio e così divenire certi di Lui, anche se tace, per diventare lieti in Dio», come affermava Benedetto XVI. 



Questo intimo essere con Dio, questa esperienza di stare in povertà e gratuità alla presenza di Gesù eucaristico, è ciò che ci aiuta anche a vivere più umanamente e pacificamente i rapporti fraterni. Partendo dallo sguardo rivolto a Gesù, dall’adorazione di Lui nell’Ostia consacrata, avremo uno sguardo diverso sul mondo e sulla storia. Nell’Ostia che contempliamo, infatti, incontriamo con Gesù anche tutti i fratelli, la fatica del loro lavoro, le loro sofferenze e la loro solitudine, la loro sete di comunione e il loro desiderio di pace. E possiamo credere che se, nel nostro mondo diviso, sapremo essere noi stessi e vedere gli altri come frammenti di Eucaristia, avremo la gioia di adorare in tutti e in tutto la Presenza di Dio e di irradiarla silenziosamente attorno a noi.                                     Anna Maria Canopi,  Badessa

 



 

Versione senza grafica
Versione PDF


<<<  Torna alla pagina precedente

Home - Cerca  
Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco