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A tutto campo


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO NEGLI EMIRATI ARABI UNITI (3-5 FEBBRAIO 2019)

Founder´s Memorial (Abu Dhabi) Lunedì, 4 febbraio 2019

 

INCONTRO INTERRELIGIOSO

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

 

Al Salamò Alaikum! La pace sia con voi!

 

Ringrazio di cuore Sua Altezza lo Sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan e il Dottor Ahmad Al-Tayyib, Grande Imam di Al-Azhar, per le loro parole. Sono grato al Consiglio degli Anziani per l’incontro che abbiamo poc’anzi avuto, presso la Moschea dello Sceicco Zayed.

 

Saluto cordialmente anche il Signore Abd Al-Fattah Al-Sisi, Presidente della Repubblica Araba d’Egitto, terra di Al-Azhar. Saluto cordialmente le Autorità civili e religiose e il Corpo diplomatico. Permettetemi anche un grazie sincero per la calorosa accoglienza che tutti hanno riservato a me e alla nostra delegazione.

 

Ringrazio anche tutte le persone che hanno contribuito a rendere possibile questo viaggio e che hanno lavorato con dedizione, entusiasmo e professionalità per questo evento: gli organizzatori, il personale del Protocollo, quello della Sicurezza e tutti coloro che in diversi modi hanno dato il loro contributo “dietro le quinte”. Un grazie speciale al Sig. Mohamed Abdel Salam, già consigliere del Grande Imam.

 

Dalla vostra patria mi rivolgo a tutti i Paesi di questa Penisola, ai quali desidero indirizzare il mio più cordiale saluto, con amicizia e stima.

 

Con animo riconoscente al Signore, nell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil, ho accolto l’opportunità di venire qui come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo.

 

Il logo di questo viaggio raffigura una colomba con un ramoscello di ulivo. È un’immagine che richiama il racconto del diluvio primordiale, presente in diverse tradizioni religiose. Secondo il racconto biblico, per preservare l’umanità dalla distruzione Dio chiede a Noè di entrare nell’arca con la sua famiglia. Anche noi oggi, nel nome di Dio, per salvaguardare la pace, abbiamo bisogno di entrare insieme, come un’unica famiglia, in un’arca che possa solcare i mari in tempesta del mondo: l’arca della fratellanza.

 

Il punto di partenza è riconoscere che Dio è all’origine dell’unica famiglia umana. Egli, che è il Creatore di tutto e di tutti, vuole che viviamo da fratelli e sorelle, abitando la casa comune del creato che Egli ci ha donato. Si fonda qui, alle radici della nostra comune umanità, la fratellanza, quale «vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio»[1]. Essa ci dice che tutti abbiamo uguale dignità e che nessuno può essere padrone o schiavo degli altri.

 

Non si può onorare il Creatore senza custodire la sacralità di ogni persona e di ogni vita umana: ciascuno è ugualmente prezioso agli occhi di Dio. Perché Egli non guarda alla famiglia umana con uno sguardo di preferenza che esclude, ma con uno sguardo di benevolenza che include. Pertanto, riconoscere ad ogni essere umano gli stessi diritti è glorificare il Nome di Dio sulla terra. Nel nome di Dio Creatore, dunque, va senza esitazione condannata ogni forma di violenza, perché è una grave profanazione del Nome di Dio utilizzarlo per giustificare l’odio e la violenza contro il fratello. Non esiste violenza che possa essere religiosamente giustificata.

 

Nemico della fratellanza è l’individualismo, che si traduce nella volontà di affermare sé stessi e il proprio gruppo sopra gli altri. È un’insidia che minaccia tutti gli aspetti della vita, perfino la più alta e innata prerogativa dell’uomo, ossia l’apertura al trascendente e la religiosità. La vera religiosità consiste nell’amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come sé stessi. La condotta religiosa ha dunque bisogno di essere continuamente purificata dalla ricorrente tentazione di giudicare gli altri nemici e avversari. Ciascun credo è chiamato a superare il divario tra amici e nemici, per assumere la prospettiva del Cielo, che abbraccia gli uomini senza privilegi e discriminazioni.

 

Desidero perciò esprimere apprezzamento per l’impegno di questo Paese nel tollerare e garantire la libertà di culto, fronteggiando l’estremismo e l’odio. Così facendo, mentre si promuove la libertà fondamentale di professare il proprio credo, esigenza intrinseca alla realizzazione stessa dell’uomo, si vigila anche perché la religione non venga strumentalizzata e rischi, ammettendo violenza e terrorismo, di negare sé stessa.

 

La fratellanza certamente «esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa natura e la stessa dignità»[2]. La pluralità religiosa ne è espressione. In tale contesto il giusto atteggiamento non è né l’uniformità forzata, né il sincretismo conciliante: quel che siamo chiamati a fare, da credenti, è impegnarci per la pari dignità di tutti, in nome del Misericordioso che ci ha creati e nel cui nome va cercata la composizione dei contrasti e la fraternità nella diversità. Vorrei qui ribadire la convinzione della Chiesa Cattolica: «Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio»[3].

 

Vari interrogativi, tuttavia, si impongono: come custodirci a vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una fratellanza non teorica, che si traduca in autentica fraternità? Come far prevalere l’inclusione dell’altro sull’esclusione in nome della propria appartenenza? Come, insomma, le religioni possono essere canali di fratellanza anziché barriere di separazione?

 

La famiglia umana e il coraggio dell’alterità

 

Se crediamo nell’esistenza della famiglia umana, ne consegue che essa, in quanto tale, va custodita. Come in ogni famiglia, ciò avviene anzitutto mediante un dialogo quotidiano ed effettivo. Esso presuppone la propria identità, cui non bisogna abdicare per compiacere l’altro. Ma al tempo stesso domanda il coraggio dell’alterità[4], che comporta il riconoscimento pieno dell’altro e della sua libertà, e il conseguente impegno a spendermi perché i suoi diritti fondamentali siano affermati sempre, ovunque e da chiunque. Perché senza libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi. Tra le libertà vorrei sottolineare quella religiosa. Essa non si limita alla sola libertà di culto, ma vede nell’altro veramente un fratello, un figlio della mia stessa umanità che Dio lascia libero e che pertanto nessuna istituzione umana può forzare, nemmeno in nome suo.

 

Il dialogo e la preghiera

 

Il coraggio dell’alterità è l’anima del dialogo, che si basa sulla sincerità delle intenzioni. Il dialogo è infatti compromesso dalla finzione, che accresce la distanza e il sospetto: non si può proclamare la fratellanza e poi agire in senso opposto. Secondo uno scrittore moderno, «chi mente a sé stesso e ascolta le proprie menzogne, arriva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé, né intorno a sé, e così comincia a non avere più stima né di se stesso, né degli altri»[5].

 

In tutto ciò la preghiera è imprescindibile: essa, mentre incarna il coraggio dell’alterità nei riguardi di Dio, nella sincerità dell’intenzione, purifica il cuore dal ripiegamento su di sé. La preghiera fatta col cuore è ricostituente di fraternità. Perciò, «quanto al futuro del dialogo interreligioso, la prima cosa che dobbiamo fare è pregare. E pregare gli uni per gli altri: siamo fratelli! Senza il Signore, nulla è possibile; con Lui, tutto lo diventa! Possa la nostra preghiera – ognuno secondo la propria tradizione – aderire pienamente alla volontà di Dio, il quale desidera che tutti gli uomini si riconoscano fratelli e vivano come tali, formando la grande famiglia umana nell’armonia delle diversità»[6].

 

Non c’è alternativa: o costruiremo insieme l’avvenire o non ci sarà futuro. Le religioni, in particolare, non possono rinunciare al compito urgente di costruire ponti fra i popoli e le culture. È giunto il tempo in cui le religioni si spendano più attivamente, con coraggio e audacia, senza infingimenti, per aiutare la famiglia umana a maturare la capacità di riconciliazione, la visione di speranza e gli itinerari concreti di pace.

 

L’educazione e la giustizia

 

Torniamo così all’immagine iniziale della colomba della pace. Anche la pace, per spiccare il volo, ha bisogno di ali che la sostengano. Le ali dell’educazione e della giustizia.

 

L’educazione – in latino indica l’estrarre, il tirare fuori – è portare alla luce le risorse preziose dell’animo. È confortante constatare come in questo Paese non si investa solo sull’estrazione delle risorse della terra, ma anche su quelle del cuore, sull’educazione dei giovani. È un impegno che mi auguro prosegua e si diffonda altrove. Anche l’educazione avviene nella relazione, nella reciprocità. Alla celebre massima antica “conosci te stesso” dobbiamo affiancare “conosci il fratello”: la sua storia, la sua cultura e la sua fede, perché non c’è conoscenza vera di sé senza l’altro. Da uomini, e ancor più da fratelli, ricordiamoci a vicenda che niente di ciò che è umano ci può rimanere estraneo[7]. È importante per l’avvenire formare identità aperte, capaci di vincere la tentazione di ripiegarsi su di sé e irrigidirsi.

 

Investire sulla cultura favorisce una decrescita dell’odio e una crescita della civiltà e della prosperità. Educazione e violenza sono inversamente proporzionali. Gli istituti cattolici – ben apprezzati anche in questo Paese e nella regione – promuovono tale educazione alla pace e alla conoscenza reciproca per prevenire la violenza.

 

I giovani, spesso circondati da messaggi negativi e fake news, hanno bisogno di imparare a non cedere alle seduzioni del materialismo, dell’odio e dei pregiudizi; imparare a reagire all’ingiustizia e anche alle dolorose esperienze del passato; imparare a difendere i diritti degli altri con lo stesso vigore con cui difendono i propri diritti. Saranno essi, un giorno, a giudicarci: bene, se avremo dato loro basi solide per creare nuovi incontri di civiltà; male, se avremo lasciato loro solo dei miraggi e la desolata prospettiva di nefasti scontri di inciviltà.

 

La giustizia è la seconda ala della pace, la quale spesso non è compromessa da singoli episodi, ma è lentamente divorata dal cancro dell’ingiustizia.

 

Non si può, dunque, credere in Dio e non cercare di vivere la giustizia con tutti, secondo la regola d’oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti» (Mt 7,12).

 

Pace e giustizia sono inseparabili! Il profeta Isaia dice: «Praticare la giustizia darà pace» (32,17). La pace muore quando divorzia dalla giustizia, ma la giustizia risulta falsa se non è universale. Una giustizia indirizzata solo ai familiari, ai compatrioti, ai credenti della stessa fede è una giustizia zoppicante, è un’ingiustizia mascherata!

 

Le religioni hanno anche il compito di ricordare che l’avidità del profitto rende il cuore inerte e che le leggi dell’attuale mercato, esigendo tutto e subito, non aiutano l’incontro, il dialogo, la famiglia, dimensioni essenziali della vita che necessitano di tempo e pazienza. Le religioni siano voce degli ultimi, che non sono statistiche ma fratelli, e stiano dalla parte dei poveri; veglino come sentinelle di fraternità nella notte dei conflitti, siano richiami vigili perché l’umanità non chiuda gli occhi di fronte alle ingiustizie e non si rassegni mai ai troppi drammi del mondo.

 

Il deserto che fiorisce

 

Dopo aver parlato della fratellanza come arca di pace, vorrei ora inspirarmi a una seconda immagine, quella del deserto, che ci avvolge.

 

Qui, in pochi anni, con lungimiranza e saggezza, il deserto è stato trasformato in un luogo prospero e ospitale; il deserto è diventato, da ostacolo impervio e inaccessibile, luogo di incontro tra culture e religioni. Qui il deserto è fiorito, non solo per alcuni giorni all’anno, ma per molti anni a venire. Questo Paese, nel quale sabbia e grattacieli si incontrano, continua a essere un importante crocevia tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del pianeta, un luogo di sviluppo, dove spazi un tempo inospitali riservano posti di lavoro a persone di varie nazioni.

 

Anche lo sviluppo, tuttavia, ha i suoi avversari. E se nemico della fratellanza era l’individualismo, vorrei additare quale ostacolo allo sviluppo l’indifferenza, che finisce per convertire le realtà fiorenti in lande deserte. Infatti, uno sviluppo puramente utilitaristico non dà progresso reale e duraturo. Solo uno sviluppo integrale e coeso dispone un futuro degno dell’uomo. L’indifferenza impedisce di vedere la comunità umana oltre i guadagni e il fratello al di là del lavoro che svolge. L’indifferenza, infatti, non guarda al domani; non bada al futuro del creato, non ha cura della dignità del forestiero e dell’avvenire dei bambini.

 

In questo contesto mi rallegro che proprio qui ad Abu Dhabi, nel novembre scorso, abbia avuto luogo il primo Forum dell’Alleanza interreligiosa per Comunità più sicure, sul tema della dignità del bambino nell’era digitale. Questo evento ha raccolto il messaggio lanciato, un anno prima, a Roma nel Congresso internazionale sullo stesso tema, a cui avevo dato tutto il mio appoggio ed incoraggiamento. Ringrazio quindi tutti i leader che si impegnano in questo campo e assicuro il sostegno, la solidarietà e la partecipazione mia e della Chiesa Cattolica a questa causa importantissima della protezione dei minori in tutte le sue espressioni.

 

Qui, nel deserto, si è aperta una via di sviluppo feconda che, a partire dal lavoro, offre speranze a molte persone di vari popoli, culture e credo. Tra loro, anche molti cristiani, la cui presenza nella regione risale addietro nei secoli, hanno trovato opportunità e portato un contributo significativo alla crescita e al benessere del Paese. Oltre alle capacità professionali, vi recano la genuinità della loro fede. Il rispetto e la tolleranza che incontrano, così come i necessari luoghi di culto dove pregano, permettono loro quella maturazione spirituale che va poi a beneficio dell’intera società. Incoraggio a proseguire su questa strada, affinché quanti qui vivono o sono di passaggio conservino non solo l’immagine delle grandi opere innalzate nel deserto, ma di una nazione che include e abbraccia tutti.

 

È con questo spirito che, non solo qui, ma in tutta l’amata e nevralgica regione mediorientale, auspico opportunità concrete di incontro: società dove persone di diverse religioni abbiano il medesimo diritto di cittadinanza e dove alla sola violenza, in ogni sua forma, sia tolto tale diritto.

 

Una convivenza fraterna, fondata sull’educazione e sulla giustizia; uno sviluppo umano, edificato sull’inclusione accogliente e sui diritti di tutti: questi sono semi di pace, che le religioni sono chiamate a far germogliare. Ad esse, forse come mai in passato, spetta, in questo delicato frangente storico, un compito non più rimandabile: contribuire attivamente a smilitarizzare il cuoredell’uomo. La corsa agli armamenti, l’estensione delle proprie zone di influenza, le politiche aggressive a discapito degli altri non porteranno mai stabilità. La guerra non sa creare altro che miseria, le armi nient’altro che morte!

 

La fratellanza umana esige da noi, rappresentanti delle religioni, il dovere di bandire ogni sfumatura di approvazione dalla parola guerra. Restituiamola alla sua miserevole crudezza. Sotto i nostri occhi sono le sue nefaste conseguenze. Penso in particolare allo Yemen, alla Siria, all’Iraq e alla Libia. Insieme, fratelli nell’unica famiglia umana voluta da Dio, impegniamoci contro la logica della potenza armata, contro la monetizzazione delle relazioni, l’armamento dei confini, l’innalzamento di muri, l’imbavagliamento dei poveri; a tutto questo opponiamo la forza dolce della preghiera e l’impegno quotidiano nel dialogo. Il nostro essere insieme oggi sia un messaggio di fiducia, un incoraggiamento a tutti gli uomini di buona volontà, perché non si arrendano ai diluvi della violenza e alla desertificazione dell’altruismo. Dio sta con l’uomo che cerca la pace. E dal cielo benedice ogni passo che, su questa strada, si compie sulla terra.

 

 


[1] Benedetto XVIDiscorso a nuovi Ambasciatori presso la Santa Sede, 16 dicembre 2010.

[2] Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2015, 2.

[3] Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 5.

[4] Cfr Discorso ai partecipanti alla Conferenza Internazionale per la PaceAl-Azhar Conference Centre, Il Cairo, 28 aprile 2017.

[5] F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, II, 2, Milano 2012, 60.

[6] Udienza Generale interreligiosa, 28 ottobre 2015.

[7] Cfr. Terenzio, Heautontimorumenos I, 1, 25. 

 

 

SANTA MESSA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

  Zayed Sports City (Abu Dhabi)
Martedì, 5 febbraio 2019

 

Beati: è la parola con cui Gesù comincia la sua predicazione nel Vangelo di Matteo. Ed è il ritornello che Egli ripete oggi, quasi a voler fissare nel nostro cuore, prima di tutto, un messaggio basilare: se stai con Gesù, se come i discepoli di allora ami ascoltare la sua parola, se cerchi di viverla ogni giorno, sei beato. Non sarai beato, ma sei beato: ecco la prima realtà della vita cristiana. Essa non si presenta come un elenco di prescrizioni esteriori da adempiere o come un complesso insieme di dottrine da conoscere. Anzitutto non è questo; è sapersi, in Gesù, figli amati del Padre. È vivere la gioia di questa beatitudine, è intendere la vita come una storia di amore, la storia dell’amore fedele di Dio che non ci abbandona mai e vuole fare comunione con noi sempre. Ecco il motivo della nostra gioia, di una gioia che nessuna persona al mondo e nessuna circostanza della vita possono toglierci. È una gioia che dà pace anche nel dolore, che già ora fa pregustare quella felicità che ci attende per sempre. Cari fratelli e sorelle, nella gioia di incontrarvi, questa è la parola che sono venuto a dirvi: beati!

 

Ora, se Gesù dice beati i suoi discepoli, colpiscono tuttavia i motivi delle singole Beatitudini. In esse vediamo un capovolgimento del pensare comune, secondo cui sono beati i ricchi, i potenti, quanti hanno successo e sono acclamati dalle folle. Per Gesù, invece, beati sono i poveri, i miti, quanti restano giusti anche a costo di fare brutta figura, i perseguitati. Chi ha ragione, Gesù o il mondo? Per capire, guardiamo a come ha vissuto Gesù: povero di cose e ricco di amore, ha risanato tante vite, ma non ha risparmiato la sua. È venuto per servire e non per essere servito; ci ha insegnato che non è grande chi ha, ma chi dà. Giusto e mite, non ha opposto resistenza e si è lasciato condannare ingiustamente. In questo modo Gesù ha portato nel mondo l’amore di Dio. Solo così ha sconfitto la morte, il peccato, la paura e la mondanità stessa: con la sola forza dell’amore divino. Chiediamo oggi, qui insieme, la grazia di riscoprire il fascino di seguire Gesù, di imitarlo, di non cercare altro che Lui e il suo amore umile. Perché sta qui, nella comunione con Lui e nell’amore per gli altri, il senso della vita sulla terra. Credete a questo?

 

Sono venuto anche a dirvi grazie per come vivete il Vangelo che abbiamo ascoltato. Si dice che tra il Vangelo scritto e quello vissuto ci sia la stessa differenza che esiste tra la musica scritta e quella suonata. Voi qui conoscete la melodia del Vangelo e vivete l’entusiasmo del suo ritmo. Siete un coro che comprende una varietà di nazioni, lingue e riti; una diversità che lo Spirito Santo ama e vuole sempre più armonizzare, per farne una sinfonia. Questa gioiosa polifonia della fede è una testimonianza che date a tutti e che edifica la Chiesa. Mi ha colpito quanto Mons. Hinder disse una volta e cioè che non solo egli si sente vostro Pastore, ma che voi, con il vostro esempio, siete spesso pastori per lui. Grazie di questo!

 

Vivere da beati e seguire la via di Gesù non significa tuttavia stare sempre allegri. Chi è afflitto, chi patisce ingiustizie, chi si prodiga per essere operatore di pace sa che cosa significa soffrire. Per voi non è certo facile vivere lontani da casa e sentire magari, oltre alla mancanza degli affetti più cari, l’incertezza del futuro. Ma il Signore è fedele e non abbandona i suoi. Un episodio della vita di sant’Antonio abate, il grande iniziatore del monachesimo nel deserto, ci può aiutare. Per il Signore aveva lasciato tutto e si trovava nel deserto. Lì, per vario tempo fu immerso in un’aspra lotta spirituale che non gli dava tregua, assalito da dubbi e oscurità, e pure dalla tentazione di cedere alla nostalgia e ai rimpianti per la vita passata. Poi il Signore lo consolò dopo tanto tormento e sant’Antonio gli chiese: «Dov’eri? Perché non sei apparso prima per liberarmi dalle sofferenze? Dove eri?». Allora percepì distintamente la risposta di Gesù: «Io ero qui, Antonio» (S. Atanasio, Vita Antonii, 10). Il Signore è vicino. Può succedere, di fronte a una prova o ad un periodo difficile, di pensare di essere soli, anche dopo tanto tempo passato col Signore. Ma in quei momenti Egli, anche se non interviene subito, ci cammina a fianco e, se continuiamo ad andare avanti, aprirà una via nuova. Perché il Signore è specialista nel fare cose nuove, sa aprire vie anche nel deserto (cfr Is 43,19).

 

Cari fratelli e sorelle, vorrei dirvi anche che vivere le Beatitudini non richiede gesti eclatanti. Guardiamo a Gesù: non ha lasciato nulla di scritto, non ha costruito nulla di imponente. E quando ci ha detto come vivere non ha chiesto di innalzare grandi opere o di segnalarci compiendo gesta straordinarie. Ci ha chiesto di realizzare una sola opera d’arte, possibile a tutti: quella della nostra vita. Le Beatitudini sono allora una mappa di vita: non domandano azioni sovraumane, ma di imitare Gesù nella vita di ogni giorno. Invitano a tenere pulito il cuore, a praticare la mitezza e la giustizia nonostante tutto, a essere misericordiosi con tutti, a vivere l’afflizione uniti a Dio. È la santità del vivere quotidiano, che non ha bisogno di miracoli e di segni straordinari. Le Beatitudini non sono per superuomini, ma per chi affronta le sfide e le prove di ogni giorno. Chi le vive secondo Gesù rende pulito il mondo. È come un albero che, anche in terra arida, ogni giorno assorbe aria inquinata e restituisce ossigeno. Vi auguro di essere così, ben radicati in Cristo, in Gesù e pronti a fare del bene a chiunque vi sta vicino. Le vostre comunità siano oasi di pace.

 

Infine, vorrei soffermarmi brevemente su due Beatitudini. La prima: «Beati i miti» (Mt 5,5). Non è beato chi aggredisce o sopraffà, ma chi mantiene il comportamento di Gesù che ci ha salvato: mite anche di fronte ai suoi accusatori. Mi piace citare san Francesco, quando ai frati diede istruzioni su come recarsi presso i Saraceni e i non cristiani. Scrisse: «Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (Regola non bollata, XVI). Né liti né dispute – e questo vale anche per i preti – né liti né dispute: in quel tempo, mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature, san Francesco ricordò che il cristiano parte armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto. È importante la mitezza: se vivremo nel mondo al modo di Dio, diventeremo canali della sua presenza; altrimenti, non porteremo frutto.

 

La seconda Beatitudine: «Beati gli operatori di pace» (v. 9). Il cristiano promuove la pace, a cominciare dalla comunità in cui vive. Nel libro dell’Apocalisse, tra le comunità a cui Gesù stesso si rivolge, ce n’è una, quella di Filadelfia, che credo vi assomigli. È una Chiesa alla quale il Signore, diversamente da quasi tutte le altre, non rimprovera nulla. Essa, infatti, ha custodito la parola di Gesù, senza rinnegare il suo nome, e ha perseverato, cioè è andata avanti, pur nelle difficoltà. E c’è un aspetto importante: il nome Filadelfia significa amore tra i fratelli. L’amore fraterno. Ecco, una Chiesa che persevera nella parola di Gesù e nell’amore fraterno è gradita al Signore e porta frutto. Chiedo per voi la grazia di custodire la pace, l’unità, di prendervi cura gli uni degli altri, con quella bella fraternità per cui non ci sono cristiani di prima e di seconda classe.

 

Gesù, che vi chiama beati, vi dia la grazia di andare sempre avanti senza scoraggiarvi, crescendo nell’amore «fra voi e verso tutti» (1 Ts 3,12).

 

SALUTO AL TERMINE DELLA MESSA

 

Prima di concludere questa celebrazione, che mi ha dato tanta gioia, desidero rivolgere il mio saluto affettuoso a tutti voi che avete partecipato: fedeli caldei, copti, greco-cattolici, greco-melchiti, latini, maroniti, siro-cattolici, siro-malabaresi, siro-malancaresi.

 

Ringrazio vivamente Monsignor Hinder per la preparazione di questa visita e per tutto il suo lavoro pastorale. Un “grazie” caloroso ai Patriarchi, agli Arcivescovi Maggiori e agli altri Vescovi presenti, ai Sacerdoti, alle persone consacrate e ai tanti laici impegnati con generosità e spirito di servizio nelle comunità e con i più poveri.

 

Saluto e ringrazio “eyal Zayid fi dar Zayid / i figli di Zayid nella casa di Zayid”.

 

La nostra Madre Maria Santissima vi custodisca nell’amore alla Chiesa e nella gioiosa testimonianza del Vangelo. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

 

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco