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Sappiate che non siete soli

Genova, 14 Agosto 2019

Genova, Stabilimento Ilva, 27 maggio 2017 - Foto © CTV - OSSERVATORE ROMANO

 

“Sappiate che non siete soli”

 

Messaggio del Santo Padre Francesco inviato al quotidiano genovese “Il Secolo XIX” in occasione del primo anniversario del crollo del Ponte Morandi

Il messaggio di Papa Francesco è pubblicato anche sugli altri giornali del gruppo Gedi News Network

 

Cari fratelli e sorelle, cari amici.
È passato quasi un anno dal crollo del Ponte Morandi che ha provocato la morte di 43 persone. Famiglie che partivano o tornavano dalle vacanze, uomini e donne che stavano viaggiando per lavoro. È stata una ferita inferta al cuore della vostra città, una tragedia per chi ha perso i propri congiunti, un dramma per i feriti, un evento comunque sconvolgente per chi è stato costretto a lasciare le proprie case vivendo da sfollato. Voglio dirvi che non vi ho dimenticato, che ho pregato e prego per le vittime, per i loro familiari, per i feriti, per gli sfollati, per voi tutti, per Genova.

 

Di fronte a eventi di questo genere, il dolore per le perdite subite è lancinante e non facile da lenire, come pure è comprensibile il sentimento di non rassegnazione di fronte a un disastro che poteva essere evitato. Io non ho risposte preconfezionate da darvi, perché di fronte a certe situazioni le nostre povere parole umane risultano inadeguate. Non ho risposte, perché dopo queste tragedie c’è da piangere, rimanere in silenzio, interrogarci sulla ragione della fragilità di ciò che costruiamo, e c’è soprattutto da pregare. Ho però un messaggio che sgorga dal mio cuore di padre e di fratello, e che vorrei trasmettervi. Non lasciate che le vicende della vita spezzino i legami che tessono la vostra comunità, cancellino la memoria di ciò che ha reso così importante e significativa la sua storia. Io sempre quando penso a Genova penso al porto. Penso al luogo da dove partì mio padre. Penso alla quotidiana fatica, alla caparbia volontà e alle speranze dei genovesi.

 

Oggi voglio dirvi una cosa innanzitutto: sappiate che non siete soli. Sappiate che non siete mai soli. Sappiate che Dio nostro Padre ha risposto al nostro grido e alla nostra domanda non con parole, ma con una presenza che ci accompagna, quella di Suo Figlio. Gesù è passato prima di noi attraverso la sofferenza e la morte. Lui ha preso su di sé tutte le nostre sofferenze. È stato disprezzato, umiliato, percosso, inchiodato sulla croce e barbaramente ucciso. La risposta di Dio al nostro dolore è stata una vicinanza, una presenza che ci accompagna, che non ci lascia soli. Gesù si è fatto uguale a noi e per questo noi lo abbiamo accanto, a piangere con noi nei momenti più difficili delle nostre vite. Guardiamo a Lui, affidiamo a Lui le nostre domande, il nostro dolore, la nostra rabbia.

 

Ma vorrei anche dirvi che Gesù sulla croce non era solo. Sotto quel patibolo c’era sua madre, Maria. Stabat Mater, Maria stava sotto la croce, a condividere la sofferenza del Figlio. Non siamo soli, abbiamo una Madre che dal Cielo ci guarda con amore e ci sta vicino. Aggrappiamoci a Lei e diciamole: “Mamma!”, come fa un bambino quando ha paura e desidera essere confortato e rassicurato. Come fu rassicurato l’umile contadino Benedetto Pareto, nel 1490, sul Monte Figogna, quando vide una Signora dal viso bellissimo e dolcissimo, che si presentò a lui come la Madre di Gesù chiedendo la costruzione di una cappella. Alzate lo sguardo verso la Madonna della Guardia e confidate nel suo aiuto di Madre. Siamo uomini e donne pieni di difetti e debolezze, ma abbiamo un Padre Misericordioso a cui rivolgerci, un Figlio Crocifisso e risorto che cammina con noi, lo Spirito Santo che ci assiste e ci accompagna. Abbiamo una Madre in Cielo che continua a stendere il suo manto su di noi senza mai abbandonarci.

 

Vorrei dirvi anche che non siete soli perché la comunità cristiana, la Chiesa di Genova, è con voi e condivide le vostre sofferenze e le vostre difficoltà. Quanto più siamo coscienti della nostra debolezza, della precarietà della nostra condizione umana, tanto più riscopriamo la bellezza delle relazioni umane, dei legami che ci uniscono, come famiglie, comunità, società civile. So che voi genovesi siete capaci di grandi gesti di solidarietà, so che vi rimboccate le maniche, che non vi arrendete, che sapete stare al fianco di chi ha più bisogno. So che anche dopo una grande tragedia che ha ferito le vostre famiglie e la vostra città, avete saputo reagire, rialzarvi, guardare avanti. Non perdete la speranza, non lasciatevela rubare! Continuate a stare al fianco di coloro che sono stati più colpiti.
Prego per voi e voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

 

Francesco

INCONTRO CON SACERDOTI, CONSACRATI E SEMINARISTI

 

Papa Francesco:

Fratelli e sorelle, vi invito a pregare insieme per i nostri fratelli copti egiziani che sono stati uccisi perché non volevano rinnegare la fede. Insieme a loro, ai loro vescovi, a mio fratello Tawadros, vi invito a pregare insieme in silenzio e poi un’Ave Maria.

[silenzio - “Ave Maria”]

E non dimentichiamo che oggi i martiri cristiani sono più dei tempi antichi, dei primi tempi della Chiesa. Sono di più.

 

Don Andrea Carcasole:

Padre Santo, mi chiamo Don Andrea Carcasole, sono vice-parroco della parrocchia di San Bartolomeo della Certosa qui a Genova, che è una parrocchia di 12mila abitanti. Chiediamo a Lei oggi i criteri per vivere un’intensa vita spirituale nel nostro ministero che, nella complessità della vita moderna e dei compiti anche amministrativi, tende a farci vivere dispersi e frantumati.

Papa Francesco:

Grazie Don Andrea per la domanda. Io dirò che più imitiamo lo stile di Gesù, più faremo bene il nostro lavoro di pastori. Questo è il criterio fondamentale: lo stile di Gesù. Come era lo stile di Gesù come pastore? Sempre Gesù era in cammino. I Vangeli, con le sfumature proprie di ognuno, ma sempre ci fanno vedere Gesù in cammino, in mezzo alla gente, la “folla” dice il Vangelo. Distingue bene il Vangelo i discepoli, la folla, i dottori della legge, i sadducei, i farisei…. Distingue il Vangelo: è interessante. E Gesù stava in mezzo alla folla. Se noi immaginiamo com’era l’orario della giornata di Gesù, leggendo i Vangeli possiamo dire che la maggior parte del tempo lo passava per la strada. Questo vuol dire vicinanza alla gente, vicinanza ai problemi. Non si nascondeva. Poi, alla sera, tante volte si nascondeva per pregare, per stare con il Padre. E queste due cose, questo modo di vedere Gesù, in strada e in preghiera, aiuta tanto per la nostra vita quotidiana, che non è in strada, è in fretta. Sono cose diverse. Di Gesù si dice che forse era un po’ in fretta quando andava verso la Passione: “decisamente” è andato a Gerusalemme. Ma questa abitudine, questo modo “impazzito” di vivere sempre guardando l’orologio – “devo fare questo, questo, questo…” - questo non è un modo pastorale, Gesù non faceva questo. Gesù mai è stato fermo. E, come tutti quelli che camminano, Gesù era esposto alla dispersione, ad essere “frantumato”. Per questo mi piace la domanda, perché si vede che nasce da un uomo che cammina e non è statico. Non dobbiamo avere paura del movimento e della dispersione del nostro tempo. Ma la paura più grande alla quale dobbiamo pensare, che possiamo immaginare, è una vita statica: una vita del prete che ha tutto ben risolto, tutto in ordine, strutturato, tutto è al suo posto, gli orari – a quale ora si apre la segreteria, la chiesa si chiude alla tal ora… –. Io ho paura del prete statico. Ho paura. Anche quando è statico nella preghiera: io prego da tale ora a tale ora. Ma non ti viene voglia di andare a passare con il Signore un’ora di più per guardarlo e lasciarti guardare da Lui? Questa è la domanda che io farei al prete statico, che ha tutto perfetto, organizzato… Io direi che una vita così, tanto strutturata, non è una vita cristiana. Forse quel parroco è un buon imprenditore, ma io mi domando: è cristiano? O almeno, vive come cristiano? Sì, celebra la Messa, ma lo stile è uno stile cristiano? O forse è un credente, un buon uomo, vive in grazia di Dio, ma con uno stile di imprenditore. Gesù sempre è stato un uomo di strada, un uomo di cammino, un uomo aperto alle sorprese di Dio. Invece, il sacerdote che ha tutto pianificato, tutto strutturato, generalmente è chiuso alle sorprese di Dio e si perde quella gioia della sorpresa dell’incontro. Il Signore ti prende quando non te l’aspetti, ma sei aperto. Un primo criterio è non avere paura di questa tensione che ci tocca vivere: noi siamo in strada, il mondo è così. È un segno di vita, di vitalità: un papà, una mamma, un educatore è sempre esposto a questo e vive la tensione. Un cuore che ama, che si dà, sempre vivrà così: esposto a questa tensione. E qualcuno può anche avere la fantasia di dire: “Ah io mi farò prete di clausura, suora di clausura, e così non avrò questa tensione”. Ma anche i padri del deserto andavano al deserto per lottare di più. Quella lotta, quella tensione.

E io credo che dobbiamo su questo pensare ad alcuni aspetti. Se guardiamo Gesù, i Vangeli ci fanno vedere due momenti, che sono forti, che sono il fondamento. Ho detto questo all’inizio e lo riprendo adesso: l’incontro con il Padre e l’incontro con le persone. La maggioranza delle persone con le quali si incontrava Gesù era gente che aveva bisogno, gente bisognosa – malati, indemoniati, peccatori – anche gente emarginata, lebbrosi. E l’incontro con il Padre. Nell’incontro con il Padre e con i fratelli, lì si dà questa tensione: tutto si deve vivere in questa chiave dell’incontro. Tu, sacerdote, ti incontri con Dio, con il Padre, con Gesù nell’Eucaristia, con i fedeli: ti incontri. Non c’è un muro che impedisca l’incontro; non c’è una formalità troppo rigida che impedisca l’incontro. Per esempio la preghiera: tu puoi stare un’ora davanti al Tabernacolo, ma senza incontrare il Signore, pregando come un pappagallo. Ma tu perdi tempo così! La preghiera: se tu preghi, prega e incontra il Signora, rimani in silenzio, lasciati guardare dal Signore; di’ una parola al Signore, chiedi qualcosa. Stai in silenzio, ascolta cosa dice, cosa ti fa sentire… Incontro. E con la gente lo stesso. Noi preti sappiamo quanto soffre la gente quando viene a chiederci un consiglio o una cosa qualsiasi. “Che cosa c’è?... Sì, sì, ma adesso non ho tempo, no…”. Di fretta, non in cammino, di fretta, questa è la differenza. Quello che è fermo e quello che va di fretta mai si incontrano. Ho conosciuto un bravo sacerdote che aveva una genialità grande: è stato professore di letteratura di alto, altissimo livello, perché anche lui era un poeta e conosceva bene le lettere. E quando è andato in pensione – è un religioso – ha chiesto al suo provinciale che lo mandasse in una parrocchia delle baraccopoli, con i poveri poveri. Per avere questo servizio, un uomo di quella cultura, è andato lì davvero con la voglia di incontrare – era un uomo di preghiera –, di continuare a incontrare Gesù e incontrare un popolo che non conosceva: il popolo dei poveri; è andato con tanta generosità. Quest’uomo apparteneva alla comunità dove ero io, la comunità religiosa. E il provinciale gli aveva detto: “un giorno alla settimana vai in comunità”. E lui veniva spesso, parlava con tutti noi, si confessava, approfittava e tornava. Un giorno mi dice: “Ma questi teologi… gli manca qualche cosa”. Io gli dico: “Cosa gli manca?”. “Per esempio, il professore di ecclesiologia, deve fare due tesi nuove”. “Ah sì, quali?”. E lui diceva così: “Il popolo di Dio, la gente nella parrocchia, è ontologicamente stufante, cioè che stanca, e metafisicamente, essenzialmente olimpico”. Cosa vuol dire “olimpico”? Che fa quello che vuole; tu puoi dargli un consiglio, ma poi si vedrà... E quando tu lavori con la gente, la gente ti stanca, e a volte anche ti stufa un po’. Ma è il Popolo di Dio! Pensa a Gesù, che lo tiravano da una parte e dall’altra. Pensa a Gesù, a quella volta in cui era per la strada e diceva: “Ma chi mi ha toccato?” - “Ma Maestro cosa dici? Guarda quanta gente c’è intorno a te”. “Qualcuno mi ha toccato” - “Ma guarda…”. Sempre la gente stanca. Lasciarsi stancare dalla gente; non difendere troppo la propria tranquillità. Vado in confessionale: c’è la coda, e poi io avevo in mente di uscire… Non la Messa, ma una cosa che si poteva fare o non fare, ecco, allora io avevo in mente questo, guardo l’orologio e cosa faccio? È una opzione: rimango nel confessionale e continuo a confessare fino a che finisca, oppure dico alla gente: “Ho un altro impegno, mi spiace, arrivederci”. Sempre incontrare la gente. Ma questo incontro con la gente è tanto mortificante, è una croce! Incontrare la gente è una croce, perché forse ci saranno nella parrocchia una, due, dieci persone – vecchiette – che ti fanno un dolce e te lo portano, buone… Ma quanti drammi tu devi vedere! E questo stanca l’anima e ti porta alla preghiera di intercessione.

Io direi queste due cose, in questa tensione. E’ molto importante. E uno dei segni che non si sta andando sulla strada buona è quando il sacerdote parla troppo di sé stesso, troppo: delle cose che fa, che gli piace fare… è autoreferenziale. E’ un segno che quell’uomo non è un uomo di incontro, al massimo è un uomo dello specchio, gli piace specchiarsi, rispecchiare sé stesso; ha bisogno di riempire il vuoto del cuore parlando di sé stesso. Invece il prete che conduce una vita di incontro, con il Signore nella preghiera e con la gente fino alla fine della giornata, è “strappato”, san Luigi Orione diceva “come uno straccio”. E uno può dire: “Ma, Signore, ho bisogno di altre cose…”. Stai stanco? Vai avanti. Quella stanchezza è santità, sempre che ci sia la preghiera. Diversamente, potrebbe essere anche una stanchezza di autoreferenzialità. Dovete, voi sacerdoti, esaminarvi su questo: sono uomo di incontro? Sono uomo di tabernacolo? Sono uomo della strada? Sono uomo “di orecchio”, che sa ascoltare? O quando incominciano a dirmi le cose, rispondo subito: “Sì, sì, le cose sono così e così…”. Mi lascio stancare dalla gente? Questo era Gesù. Non ci sono formule. Gesù aveva una chiara coscienza che la sua vita era per gli altri: per il Padre e per la gente, non per sé stesso. Si dava, si dava: si dava alla gente, si dava al Padre nella preghiera. E la sua vita l’ha vissuta in chiave di missione: “Io sono inviato dal Padre per dire queste cose…”.

Una cosa che non ci aiuta è la debolezza nella diocesanità. Ma di questo parlerò rispondendo a un’altra domanda.

Ci farà bene, farà bene a tutti i preti ricordare che soltanto Gesù è il Salvatore, non ci sono altri salvatori. E forse pensare che Gesù mai, mai, si è legato alle strutture, ma sempre si legava ai rapporti. Se un sacerdote vede che nella sua vita la sua condotta è troppo legata alle strutture, qualcosa non va bene. E Gesù questo non lo faceva, Gesù si legava ai rapporti. Una volta ho sentito un uomo di Dio – credo che introdurranno la causa di beatificazione di quest’uomo – che diceva: “Nella Chiesa si deve vivere quel detto: “minimo di strutture per il massimo di vita, e mai il massimo di strutture per il minimo di vita”. Senza rapporti con Dio e con il prossimo, niente ha senso nella vita di un prete. Farai carriera, andrai in quel posto, in quell’altro; in quella parrocchia che ti piace o in una terna per essere vescovo. Farai carriera. Ma il cuore? Rimarrà vuoto, perché il tuo cuore è legato alle strutture e non ai rapporti, i rapporti essenziali: con il Padre, con Dio, con Gesù e con le persone. Questa è un po’ la risposta sui criteri che voglio darvi. “Ma, Padre, Lei non è moderno… Questi criteri sono antichi…”. Così è la vita, figlio! Sono i vecchi criteri della Chiesa che sono moderni, ultramoderni!

 

Don Pasquale Revello

Sono don Pasquale Revello, parroco. Lavoro a Recco, una bella cittadina sul mare, nella parrocchia di San Giovanni Battista: 7.000 abitanti. Padre Santo, vorremmo vivere meglio la fraternità sacerdotale tanto raccomandata dal nostro Cardinale Arcivescovo e promossa con incontri diocesani, vicariali, pellegrinaggi, ritiri ed esercizi spirituali, settimane di comunità. Ci può dare qualche indicazione?

Papa Francesco:

Grazie, don Pasquale. Quanti anni ha, Lei?

Don Pasquale:

81 compiuti.

Papa Francesco:

Siamo coetanei! Ma le faccio una confessione: sentendoLa parlare così, gliene avrei dati 20 di meno!

Fraternità: è una bella parola, ma non si quota nella borsa dei valori. E’ una parola che non si quota nella borsa dei valori. E’ tanto difficile, la fraternità, tra noi. E’ un lavoro di tutti i giorni, la fraternità presbiterale. Forse senza accorgercene, ma corriamo il rischio di creare quell’immagine del prete che sa tutto, non ha bisogno che gli dicano nient’altro: “Io so tutto, so tutto”. Oggi i bambini direbbero: “Questo è un prete google o wikipedia!” Sa tutto. E questa è una realtà che fa tanto male alla vita presbiterale: l’autosufficienza. Questo tipo di prete dice: “Perché perdere tempo nelle riunioni?... E quante volte sto nelle riunioni e sta parlando il fratello prete, e io sono in orbita nei miei pensieri, penso alle cose che devo fare domani…”. Io lascio la domanda: ma se il vescovo dicesse: “Sapete che dall’anno prossimo crescerà l’apporto dell’8 per mille per i preti?”, allora “l’orbita” scende subito, perché c’è qualcosa che ha toccato il cuore! Questo ti interessa? E quello che ti dice quel prete giovane o quel prete vecchio o quel prete di mezza età, non ti interessa? Una bella domanda da farci: nelle riunioni, quando mi sento un po’ lontano da ciò che sta dicendo l’altro, o non mi interessa, chiedermi: “Ma perché non mi interessa questo? Che cos’è che mi interessa? Dov’è la porta per arrivare al cuore di quel fratello prete che sta parlando e dicendo della sua vita, che è una ricchezza per me?”. E’ una vera ascesi, quella della fraternità sacerdotale! La fraternità. Ascoltarsi, pregare insieme…; e poi un buon pranzetto insieme, fare festa insieme… per i preti giovani, una partita di calcio insieme… Questo fa bene! Fa bene. Fratelli. La fraternità, tanto umana. Fare con i preti del presbiterio quello che facevo con i miei fratelli: questo è il segreto. Ma c’è l’egoismo; dobbiamo recuperare il senso della fraternità che… sì, se ne parla ma non è ancora entrata nel cuore dei presbitèri, non è entrata profondamente. In alcuni un po’, in alcuno meno, ma deve entrare di più. Ciò che succede all’altro, mi tocca; ciò che dice quel confratello, può dirlo anche per aiutarmi a risolvere un problema che io ho. “Ma quello la pensa in modo diverso da me...” Ascoltalo! E prendi quello che ti serve. I fratelli sono ricchezza gli uni per gli altri. E questo è quello che apre il cuore: recuperare il senso della fraternità. E’ una cosa molto seria. Noi preti, noi vescovi, non siamo il Signore. No. Il Signore è Lui. Noi siamo i discepoli del Signore, e dobbiamo aiutarci gli uni gli altri. Anche litigare, come litigavano i discepoli quando si domandavano chi fosse il più grande di loro. Anche litigare. E’ bello anche sentire discussioni nelle riunioni sacerdotali, perché se c’è discussione c’è libertà, c’è amore, c’è fiducia, c’è fraternità! Non avere paura. Piuttosto, bisogna avere paura del contrario: non dire le cose, ma poi, dietro: “Hai sentito cosa ha detto quello scemo? Hai sentito che idea stravagante?”. La mormorazione, lo “spellarsi” l’un l’altro, la rivalità… Vi dirò una cosa… Ho pensato tre volte se posso dirla o no. Sì, la posso dire. Non so se devo dirla, ma la posso dire. Voi sapete che per fare la nomina di un vescovo si chiedono informazioni ai sacerdoti e anche ai fedeli, alle consacrate su questo sacerdote, e lì, nel questionario che manda il nunzio, si dice: “questo è segreto”. Non si può dire a nessuno, ma questo sacerdote è un possibile candidato a diventare vescovo. E si chiedono informazioni. Alcune volte si trovano vere calunnie o opinioni che, senza essere calunnie gravi, svalutano la persona del prete; e si capisce subito che dietro c’è rivalità, gelosia, invidia… Quando non c’è fraternità sacerdotale, c’è – è dura la parola – c’è tradimento: si tradisce il fratello. Si vende il fratello. Per andare su io. Si “spella” il fratello. Pensate, fate un esame di coscienza, su questo. Vi chiedo: quante volte ho parlato bene, ho ascoltato bene, in una riunione, fratelli sacerdoti che la pensano diversamente o che non mi piacciono? Quante volte, appena hanno incominciato a parlare, ho chiuso le orecchie? E quante volte li ho criticati, “spiumati”, “spellati” di nascosto? Il nemico grande contro la fratellanza sacerdotale è questo: la mormorazione per invidia, per gelosia o perché non mi va bene, o perché la pensa in un’altra maniera. E dunque è più importante l’ideologia della fraternità; è più importante l’ideologia della dottrina… Ma dove siamo arrivati? Pensate. La mormorazione o il giudicare male i fratelli è un “male di clausura”: quanto più siamo chiusi nei nostri interessi, tanto più critichiamo gli altri. E mai avere la voglia di avere l’ultima parola: l’ultima parola sarà quella che viene fuori da sola, o la dirà il vescovo; ma io dico la mia e ascolto quella degli altri.

Poi, quando ci sono sacerdoti malati, ammalati fisicamente, andiamo a trovarli, li aiutiamo… Ma peggio, quando sono malati psichicamente; e quando sono ammalati moralmente. Faccio penitenza per loro? Prego per loro? Cerco di avvicinarmi per dare una mano, per far vedere loro lo sguardo misericordioso del Padre? O subito vado dall’altro amico mio a dirgli: “Sai? Ho saputo di quello là questo, questo e questo…”. E lo “sporco” ancora di più. Ma se quel poveretto è caduto vittima di Satana, anche tu vuoi schiacciarlo? Queste cose non sono favole: questo accade, questo succede.

E inoltre un’altra cosa che può aiutare è sapere che nessuno di noi è il tutto. Tutti siamo parte di un corpo, del corpo di Cristo, della Chiesa, di questa Chiesa particolare. E chi ha la pretesa di essere il tutto, di avere sempre ragione o avere quel posto o quell’altro, sbaglia. Ma questo si impara dal seminario. So che qui ci sono i superiori dei seminari, i formatori, i padri spirituali. Questo è molto importante. Un bravo arcivescovo vostro, il cardinale Canestri, diceva che la Chiesa è come un fiume: l’importante è essere dentro il fiume. Se sei al centro o più a destra o più a sinistra, ma dentro il fiume, questo è una varietà lecita. L’importante è essere dentro il fiume. Tante volte noi vogliamo che il fiume si restringa soltanto dalla nostra parte e condanniamo gli altri… questa non è fraternità. Tutti dentro il fiume. Tutti. Questo si impara in seminario. E io consiglio ai formatori: se voi vedete un seminarista bravo, intelligente, che sembra bravo, è bravo ma è un chiacchierone [pettegolo], cacciatelo via. Perché dopo questa sarà un’ipoteca per la fraternità presbiterale. Se non si corregge, cacciatelo via. Dall’inizio. C’è un detto, non so come si dice in italiano: “Alleva corvi e ti mangeranno gli occhi”. Se nel seminario tu allevi “corvi” che “chiacchierano”, distruggeranno qualsiasi presbiterio, qualsiasi fraternità nel presbiterio.

E poi ci sono tante prove: il parroco e il vice-parroco, ad esempio. A volte vanno naturalmente d’accordo, sono dello stesso temperamento; ma tante volte sono differenti, molto differenti, perché nel fiume uno è da questa parte e l’altro è dall’altra parte: ma tutti dentro il fiume. Fate uno sforzo per capirvi, per amarvi, per parlarvi… L’importante è essere dentro il fiume. E l’importante è non chiacchierare dell’altro, e cercare l’unità. E dobbiamo prendere le luci, le ricchezze, i doni, i carismi di ognuno. Questo è importante. I Padri del deserto ci insegnano tanto su questo: sulla fraternità, sul perdono, sull’aiuto. Una volta, andarono da Abba Pafnuzio alcuni monaci: erano preoccupati per un peccato che aveva commesso uno dei loro fratelli, e vanno da lui a chiedere aiuto. Ma, prima di andare, avevano chiacchierato tra loro, parecchio. E Abba Pafnuzio, dopo averli ascoltati, disse: “Sì, io ho visto sulla riva del fiume un uomo che era proprio nel fango fino alle ginocchia. E alcuni fratelli volevano dargli una mano, e lo hanno fatto andare giù fino al collo”. Ci sono alcuni “aiuti” che quello che cercano è distruggere e non aiutare: sono solo travestiti da aiuti. Nella mormorazione, sempre succede questo. Una cosa che ci aiuterà tanto, quando ci troviamo davanti ai peccati o a cose brutte dei nostri fratelli, cose che cercano di rompere la fraternità, è farci la domanda: “Quante volte io sono stato perdonato?”. Questo aiuta.

Grazie don Pasquale. E grazie della Sua giovinezza.

 

Madre Rosangela Sala, Presidente USMI Ligure

Padre Santo, grazie. Sono suor Rosangela Sala dell’Istituto delle Suore dell’Immacolata e rappresento la parte femminile della vita consacrata ligure. Sappiamo che Lei ha vissuto una lunga esperienza di consacrazione vissuta in situazioni diverse e con differenti ruoli. Che cosa può dirci perché possiamo vivere la nostra vita con crescente intensità rispetto al carisma, all’apostolato e nella nostra Diocesi, che è la Chiesa?

Papa Francesco:

Grazie, Madre. Io la Madre Rosangela la conosco da anni… E’ una brava donna, ma ha un difetto. Posso dirlo? Guida a 140! [ride, ridono] Le piace andare in fretta, ma è brava.

Lei ha detto una parola che mi piace tanto, mi piace tanto: la diocesanità. Più che una parola, è una dimensione che mi piacerebbe collegare con le domande precedenti. Una dimensione della nostra vita di Chiesa, perché la diocesanità è quello che ci salva dall’astrazione, dal nominalismo, da una fede un po’ gnostica o soltanto che “vola per aria”. La diocesi è quella porzione del popolo di Dio che ha un volto. Nella diocesi c’è il volto del popolo di Dio. La diocesi ha fatto, fa e farà storia. Tutti siamo inseriti nella diocesi. E questo ci aiuta affinché la nostra fede non sia teorica, ma sia pratica. E voi consacrate e consacrati, siete un regalo per la Chiesa, perché ogni carisma, ognuno dei carismi è un regalo per la Chiesa, per la Chiesa universale. Ma sempre è interessante vedere come ognuno dei carismi, tutti i carismi nascono in un posto concreto e molto legato alla vita di quella diocesi concreta. I carismi non nascono nell’aria, ma in un posto concreto. Poi il carisma cresce, cresce, cresce e ha un carattere molto universale; ma alle origini, sempre ha una concretezza. E’ bello fare memoria di come non ci sia carisma senza un’esperienza fondante concreta. E che  abitualmente non è legata a una missione universale, ma a una diocesi, a un posto concreto. Poi si fa universale, ma all’inizio, alle radici… Pensiamo ai Francescani. Se uno dice: “Sono francescano”, qual è il posto che ci viene in mente? Assisi! Subito! “Ma siamo universali!” Sì, siete dappertutto, è vero, ma c’è l’origine concreta. E vivere intensamente il carisma è volere incarnarlo in un posto concreto.

Il carisma va incarnato: nasce in un posto concreto e poi cresce e continua a incarnarsi in posti concreti. Ma sempre bisogna cercare dove è nato, come è nato il carisma, in quale città, in quale quartiere, con quale fondatore, quale fondatrice, come si è formato... E questo ci insegna ad amare la gente dei posti concreti, amare gente concreta, avere ideali concreti: la concretezza la dà la diocesanità. La concretezza della Chiesa la dà la diocesanità. E questo non vuol dire uccidere il carisma, no. Questo aiuta il carisma a farsi più reale, più visibile, più vicino. E poi, ogni tanto – ogni sei anni, normalmente – i consacrati si riuniscono in capitolo, e provengono dalle diverse “concretezze”, e questo fa crescere l’istituto. Ma sempre con la radice nella diocesanità: nelle diverse diocesi, dove questo carisma è nato e dove è andato. Questa è la concretezza. Quando l’universalità di un istituto religioso, che cresce e va e va, si dimentica di inserirsi nei posti concreti, nelle diocesi concrete, questo Ordine religioso alla fine si dimentica di dove è nato, del carisma fondante. Si universalizza alla maniera delle Nazioni Unite, per esempio. “Sì, facciamo una riunione universale, tutti insieme…”. Ma non c’è quella concretezza della diocesanità: dove è nato il carisma e dove è andato poi e si è inserito in quelle Chiese particolari. Istituti religiosi volanti non esistono! E se qualcuno ha questa pretesa, finirà male. Sempre le radici nella diocesi. E qui c’è il non facile rapporto tra i religiosi consacrati e i vescovi. Adesso si sta lavorando a un nuovo progetto per fare di nuovo il documento Mutuae relationes, che ha 40 anni, ed è ora di rivederlo. Perché sempre ci sono conflitti, anche conflitti di crescita, conflitti buoni, e anche alcuni non tanto buoni. Ma questo è importante: un carisma che abbia la pretesa di non prendere sul serio l’aspetto della diocesanità e si rifugia soltanto negli aspetti ad intra, questo lo porterà a una spiritualità autoreferenziale e non universale come la Chiesa di Gesù Cristo.

Questa parola mi è piaciuta tanto, Madre: diocesanità. Dove il carisma è nato e dove si inserisce nella sua crescita.

Un secondo aspetto che mi piacerebbe sottolineare è la disponibilità. Una disponibilità ad andare dove c’è più rischio, dove c’è più bisogno, dove c’è più necessità. Non per curare se stessi: per andare a donare il carisma e inserirsi dove c’è più necessità. La parola che uso spesso è periferie, ma io dico tutte le periferie, non solo quelle della povertà, tutte. Anche quelle del pensiero, tutte. Inserirsi in esse. E queste periferie sono il riflesso dei posti dove è nato il carisma primordiale. E quando dico disponibilità, dico anche revisione delle opere. E’ vero, alle volte si fanno revisioni perché non c’è personale e si deve fare. Ma anche quando c’è personale, quando c’è gente, domandarsi: il nostro carisma è necessario in questa diocesi, o in questo posto della diocesi? O sarà più necessario da un’altra parte e in questo posto potrà venire un altro carisma, ad aiutare? Essere disponibili ad andare oltre, sempre oltre: il “Deus semper maior”. Sempre andare oltre, oltre… Essere disponibili e non aver paura dei rischi; con la prudenza del governo, ma… Questo è importante, queste due cose, direi: diocesanità e disponibilità. Diocesanità come riferimento alla nascita, e anche disponibilità per crescere e inserirsi nelle diocesi. Direi questo, riprendendo la Sua parola, diocesanità. Grazie.

 

P. Andrea Caruso, O.F.M. Capp.

Santità, mi chiamo frate Andrea Caruso, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini liguri. Questa è la domanda: come vivere e affrontare il generale calo di vocazioni alla vita sacerdotale e alla vita consacrata?

Papa Francesco:

Grazie.

Si dice dei Francescani che si riuniscono sempre, e si dice: “Quando non sono in capitolo, sono in versetto”. Sempre sono in qualche riunione, sono riuniti.

Dunque il calo [delle vocazioni]. C’è un problema demografico: il calo demografico in Italia. Noi siamo sotto zero, e se non ci sono ragazzi e ragazze, non ci saranno vocazioni. Era più facile in tempi di famiglie più numerose avere vocazioni. C’è un calo che è anche conseguenza del calo demografico. Non è l’unica ragione, ma questa dobbiamo averla presente. E’ più facile convivere con un gatto o con un cane che con i figli. Perché io mi assicuro l’amore programmato, perché non sono liberi, io li allevo fino a un certo punto, c’è un rapporto, mi sento accompagnato o accompagnata con il gatto, con il cane, e non con i figli. Uno dei miei assistenti, che ne ha tre [figli] mi dice così [ride]. Si, è vero. In ogni epoca, dobbiamo vedere le cose che succedono come un passaggio del Signore: oggi il Signore passa tra noi e ci pone questa domanda: “Cosa succede?”. Cosa succede? Il calo è vero. Ma io mi faccio un’altra domanda: che cosa ci dice o ci sta chiedendo il Signore, adesso? La crisi vocazionale è una crisi che tocca tutta la Chiesa, tutte le vocazioni: sacerdotali, religiose, laicali, matrimoniali… Pensa alla vocazione al matrimonio, che è tanto bella. Non si sposano, i giovani; convivono, preferiscono quello. E’ una crisi trasversale, e dobbiamo a pensare le cose così. E’ una crisi che tocca tutti, anche la vocazione matrimoniale. Una crisi trasversale. E come tale è un tempo per domandarsi, per domandare al Signore e domandarci noi: cosa dobbiamo fare? cosa dobbiamo cambiare? Affrontare i problemi è una cosa necessaria; e imparare dai problemi è una cosa obbligatoria. E noi dobbiamo imparare anche dai problemi. Cercare una risposta che non sia una risposta riduttiva, che non sia una risposta “di conquista”.

Una cosa brutta che è accaduta nella Chiesa qui in Italia – sto parlando degli anni Novanta, più o meno –: alcune congregazioni che non avevano case nelle Filippine, andavano e portavano qui delle  ragazze, le hanno “viziate” e le ragazze venivano. Brave ragazze, buone … Poi la maggioranza lasciava. Io ricordo, nel Sinodo del 1994, una lettera pastorale dei vescovi delle Filippine che vietavano di fare questo, e le congregazioni che non hanno case nelle Filippine non possono fare questo. Primo. Secondo: la formazione iniziale si deve fare nel Paese [d’origine], poi si può andare in un altro Paese, ma la formazione iniziale, nel proprio Paese. E ricordo come se fosse oggi, credo che fosse il “Corriere della Sera”, il titolo a caratteri cubitali: “La tratta delle novizie”. E’ stato uno scandalo. Anche in alcuni Paesi latinoamericani. Sto pensando a una congregazione… Prendevano il bus e andavano in certi posti poveri, e convincevano le ragazze a venire a Buenos Aires e a farsi novizie, e venivano. E poi le cose non andavano bene. E qui, in Italia – a Roma – questo è un dato di 15 anni fa, l’ho saputo da alcune congregazioni che andavano nei Paesi ex-comunisti dell’Europa centrale in cerca di vocazioni, ragazze, Paesi poveri… Venivano, ma non avevano vocazione, però non volevano tornare; alcune trovavano un lavoro e altre, poverette, finivano sul marciapiede.

E’ difficile il lavoro vocazionale, ma si deve fare. E’ una sfida. Dobbiamo essere creativi, nel lavoro vocazionale. L’altro giorno sono stati in una riunione – prima del vostro capitolo nella provincia delle Marche, sono venuti da me. Quasi tutti. A fare una sorta di pre-capitolo con il Papa. Tanti giovani! “Come avete tante vocazioni?” – “Non so, cerchiamo di vivere la vita come la voleva San Francesco”. La fedeltà al carisma fondazionale. E quando ci sono congregazioni che sono fedeli al carisma fondazionale, ma con quell’amore che fa vedere l’attualità che ha quel carisma, la bellezza, questo attira. E poi la testimonianza. Se noi vogliamo consacrati, consacrate, sacerdoti dobbiamo dare testimonianza che siamo felici, che siamo felici. E che finiamo la nostra vita felici della scelta che Gesù ha fatto di noi. La testimonianza di gioia, anche nel modo di vivere. Ci sono consacrati, consacrate, sacerdoti, vescovi cristiani, ma vivono come pagani. Un giovane, una giovane di oggi guarda e dice: “No, così io non voglio!”. E questo spinge fuori la gente. Poi, è importante la conversione pastorale e missionaria. Una delle cose che i giovani di oggi cercano tanto è la missionarietà. Lo zelo apostolico: vedere nella testimonianza anche un grande zelo apostolico, che uno non vive per se stesso, che vive per gli altri, che dà la vita, dà la vita. Una volta – l’ho saputo appena vescovo, negli anni ’92 – ho saputo che una congregazione di suore del posto dov’ero, nel quartiere, nella zona di Buenos Aires dove io ero vescovo ausiliare, stava rifacendo la casa delle suore. Avevano un collegio molto ricco, molto ricco. Avevano i soldi. E avevano ragione: la casa delle suore doveva essere rifatta un po’. L’avevano fatta bene: anche con il bagno privato. Sta bene – io ho pensato – se è una cosa austera, oggi anche una comodità moderna è importante, non c’è problema … Ma alla fine hanno fatto un palazzo di lusso, per le suore. E anche – sto parlando del 1992, oggi sarebbe più comprensibile, non so, non sarebbe bene, ma non scandalizzerebbe tanto – in ognuna delle stanze delle suore, una tv. Qual è stato il risultato? Dalle due alle quattro del pomeriggio, tu non trovavi una suora, nel collegio: ognuna era nella sua stanza a guardare la telenovela. La mondanità. La mondanità spirituale. E la gente, i giovani chiedono testimonianza di autenticità, di zelo apostolico, di armonia con il carisma. E anche noi dobbiamo renderci conto che con questi comportamenti siamo noi stessi a provocare certe crisi vocazionali. Siamo stati noi stessi. Ci vuole una conversione pastorale, una conversione missionaria. Vi invito a prendere quei passi della Evangelii gaudium che parlano di questo, sulla necessaria conversione missionaria, e questa è una testimonianza che attira vocazioni.

Poi, le vocazioni ci sono, Dio le dà. Ma se tu – prete o consacrato o suora – sei sempre occupato, non hai tempo di ascoltare i giovani che vengono, che non vengono… “Sì, si, domani…”. Perché? I giovani sono “noiosi”, vengono sempre con le stesse domande… Se tu non hai tempo, vai a cercare un'altra persona che possa ascoltare. Ascoltarli. E poi, i giovani sono sempre in movimento: bisogna metterli su una strada missionaria. Quattro giorni di vacanza: vi invito, andiamo a fare una piccola missione in quel posto, in quel paesino, o andiamo a imbiancare la scuola di quel paesino che è tutta sporca… E i giovani vanno subito. E facendo queste cose, il Signore parla loro. La testimonianza. Questa è la chiave. Questa è la chiave.

Cosa pensa un giovane quando vede un sacerdote, un consacrato o una consacrata? La prima cosa che pensa, se ha qualche movimento dello Spirito: “Io vorrei essere come quella, come quello”. Lì c’è il seme. Nasce dalla testimonianza. “Io mai vorrei essere come quello!” E’ la controtestimonianza. La testimonianza si fa senza parole.

E finisco con un aneddoto. Nella zona di Buenos Aires, dove ero vescovo ausiliare, ci sono tanti ospedali, ma in tutti ci sono le suore. E in uno, che era vicino al vicariato, c’erano tre suore tedesche, anzianissime, malate, di una congregazione che non aveva gente da mandare. E la Madre generale, con buon senso, le ha richiamate: è stata una decisione prudente, presa con la pregata, parlandone col vescovo… una cosa ben fatta. E un sacerdote disse: “Io conosco la Madre generale di un istituto coreano di Seul, della Sacra Famiglia di Seul. Posso scrivere”. Ha scritto. “Va bene, va bene”. Alla fine, dopo quattro mesi, sono arrivate tre suore coreane. Sono arrivate lunedì – per dire – martedì si sono arrangiate un po’ le loro cose, e mercoledì sono scese ai reparti. Coreane, senza una parola di spagnolo. Dopo alcuni giorni, i malati erano tutti felici: “Ma che suore brave! Ma che bello, quello che dicono!” – “Ma come – dico – quello che dicono, se non parlano una parola di spagnolo?” – “No, no, ma è il sorriso, ti prendono la mano, ti fanno una carezza…”. Il linguaggio dei gesti! Ma soprattutto il linguaggio della testimonianza dell’amore! Guarda, anche senza parole, tu puoi attrarre gente. La testimonianza è decisiva nelle vocazioni: è decisiva.

 

Grazie per quello che fate! Grazie tante!

Vi chiedo di pregare per me. Vi ringrazio per la vostra vita consacrata, per la vostra vita presbiterale. E avanti, avanti, che il Signore è grande e ci darà figli e nipoti nelle nostre congregazioni e nelle nostre diocesi!

Grazie.

E adesso vi do la benedizione, e andate avanti con coraggio! E mi piacerebbe salutare i quattro che hanno avuto il coraggio di fare le domande.

[Benedizione]



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco