A tutto campo


"NON LASCIAMOLI SOLI! ACCOMPAGNARE I GENITORI NELL´EDUCAZIONE DEI FIGLI ADOLESCENTI"

Roma, CONVEGNO PASTORALE DIOCESANO, Basilica di San Giovani in Laterano, Lunedì, 19 giugno 2017

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO


 Come diceva quel prete: “Prima di parlare, dirò due parole”.

Voglio ringraziare il cardinale Vallini per le sue parole e vorrei dire una cosa che lui non poteva dire, perché è sotto segreto, ma il Papa può dirlo. Quando, dopo l’elezione, mi hanno detto che dovevo andare prima alla Cappella Paolina e poi sul balcone a salutare la gente, subito mi è venuto in mente il nome del cardinale Vicario: “Io sono vescovo, c’è un vicario generale…”. Subito. L’ho sentito anche con simpatia. E l’ho chiamato. E dall’altra parte il cardinale Hummes, che era accanto a me durante gli scrutini e mi diceva cose che mi hanno aiutato. Questi due mi hanno accompagnato, e da quel momento ho detto: “Sul balcone con il mio vicario”. Lì, al balcone. Da quel momento mi ha accompagnato, e lo voglio ringraziare. Lui ha tante virtù e anche un senso dell’oggettività che mi ha aiutato tante volte, perché a volte io “volo” e lui mi faceva “atterrare” con tanta carità… La ringrazio, Eminenza, per la compagnia. Ma il cardinale Vallini non va in pensione, perché appartiene a sei Congregazioni e continuerà a lavorare, ed è meglio così, perché un napoletano senza lavoro sarebbe una calamità, in diocesi… [ride, ridono, applausi] Voglio ringraziare in pubblico per il suo aiuto. Grazie!

 

E a voi, buonasera!

Ringrazio per l’opportunità di poter dare inizio a questo Convegno diocesano, nel quale tratterete un tema importante per la vita delle nostre famiglie: accompagnare i genitori nell’educazione dei figli adolescenti.

In queste giornate rifletterete su alcuni argomenti-chiave che corrispondono in qualche modo ai luoghi in cui si gioca il nostro essere famiglia: la casa, la scuola, le reti sociali, la relazione intergenerazionale, la precarietà della vita e l’isolamento familiare. Ci sono i laboratori su questi temi.

Mi piacerebbe condividere con voi alcuni “presupposti” che ci possono aiutare in questa riflessione. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma lo spirito con cui riflettiamo è altrettanto importante dei contenuti (un bravo sportivo sa che il riscaldamento conta tanto quanto la prestazione successiva). Perciò, questa conversazione vuole aiutarci in tal senso: un “riscaldamento”, e poi starà a voi “giocare tutto sul campo”. L’esposizione la farò in piccoli capitoli.

 

1. In romanesco!

La prima delle chiavi per entrare in questo tema ho voluto chiamarla “in romanesco”: il dialetto proprio dei romani. Non di rado cadiamo nella tentazione di pensare o riflettere sulle cose “in genere”, “in astratto”. Pensare ai problemi, alle situazioni, agliadolescenti… E così, senza accorgercene, cadiamo in pieno nel nominalismo. Vorremmo abbracciare tutto ma non arriviamo a nulla. Oggi su questo tema vi invito a pensare “in dialetto”. E per questo bisogna fare uno sforzo notevole, perché ci è chiesto di pensare alle nostre famiglie nel contesto di una grande città come Roma. Con tutta la sua ricchezza, le opportunità, la varietà, e nello stesso tempo con tutte le sue sfide. Non per rinchiudersi e ignorare il resto (siamo sempre italiani), ma per affrontare la riflessione, e persino i momenti di preghiera, con un sano e stimolante realismo. Niente astrazione, niente generalizzazione, niente nominalismo.

 

La vita delle famiglie e l’educazione degli adolescenti in una grande metropoli come questa esige alla base un’attenzione particolare e non possiamo prenderla alla leggera. Perché non è la stessa cosa educare o essere famiglia in un piccolo paese e in una metropoli. Non dico che sia meglio o peggio, è semplicemente diverso. La complessità della capitale non ammette sintesi riduttive, piuttosto ci stimola a un modo di pensare poliedrico, per cui ogni quartiere e zona trova eco nella diocesi e così la diocesi può farsi visibile, palpabile in ogni comunità ecclesiale, con il suo proprio modo di essere. L’uniformità è un grande nemico.

 

Voi vivete le tensioni di questa grande città. In molte delle visite pastorali che ho compiuto mi hanno presentato alcune delle vostre esperienze quotidiane, concrete: le distanze tra casa e lavoro (in alcuni casi fino a 2 ore per arrivare); la mancanza di legami familiari vicini, a causa del fatto di essersi dovuti spostare per trovare lavoro o per poter pagare un affitto; il vivere sempre “al centesimo” per arrivare alla fine del mese, perché il ritmo di vita è di per sé più costoso (nel paese ci si arrangia meglio); il tempo tante volte insufficiente per conoscere i vicini là dove viviamo; il dover lasciare in moltissimi casi i figli soli… E così potremmo andare avanti elencando una grande quantità di situazioni che toccano la vita delle nostre famiglie. Perciò la riflessione, la preghiera, fatela “in romanesco”, in concreto, con tutte queste cose concrete, con volti di famiglie ben concreti e pensando come aiutarvi tra voi a formare i vostri figli all’interno di questa realtà. Lo Spirito Santo è il grande iniziatore e generatore di processi nelle nostre società e situazioni. E’ la grande guida delle dinamiche trasformatrici e salvatrici. Con Lui non abbiate paura di “camminare” per i vostri quartieri, e pensare a come dare impulso a un accompagnamento per i genitori e gli adolescenti. Cioè, in concreto.

 

2. Connessi

Insieme al precedente, mi soffermo su un altro aspetto importante. La situazione attuale a poco a poco sta facendo crescere nella vita di tutti noi, e specialmente nelle nostre famiglie, l’esperienza di sentirci “sradicati”. Si parla di “società liquida” – ed è così – ma oggi mi piacerebbe, in questo contesto, presentarvi il fenomeno crescente della società sradicata. Vale a dire persone, famiglie che a poco a poco vanno perdendo i loro legami, quel tessuto vitale così importante per sentirci parte gli uni degli altri, partecipi con gli altri di un progetto comune. E’ l’esperienza di sapere che “apparteniamo” ad altri (nel senso più nobile del termine). E’ importante tenere conto di questo clima di sradicamento, perché a poco a poco passa nei nostri sguardi e specialmente nella vita dei nostri figli. Una cultura sradicata, una famiglia sradicata è una famiglia senza storia, senza memoria, senza radici, appunto. E quando non ci sono radici, qualsiasi vento finisce per trascinarti. Per questo una delle prime cose a cui dobbiamo pensare come genitori, come famiglie, come pastori sono gli scenari dove radicarci, dove generare legami, trovare radici, dove far crescere quella rete vitale che ci permetta di sentirci “casa”. Oggi le reti sociali sembrerebbero offrirci questo spazio di “rete”, di connessione con altri, e anche i nostri figli li fanno sentire parte di un gruppo. Ma il problema che comportano, per la loro stessa virtualità, è che ci lasciano come “per aria” – ho detto “società liquida”; possiamo dire “società gassosa” – e perciò molto “volatili”: “società volatile”.Non c’è peggior alienazione per una persona di sentire che non ha radici, che non appartiene a nessuno. Questo principio è molto importante per accompagnare gli adolescenti.

 

Tante volte esigiamo dai nostri figli un’eccessiva formazione in alcuni campi che consideriamo importanti per il loro futuro. Li facciamo studiare una quantità di cose perché diano il “massimo”. Ma non diamo altrettanta importanza al fatto che conoscano la loro terra, le loro radici. Li priviamo della conoscenza dei geni e dei santi che ci hanno generato. So che avete un laboratorio dedicato al dialogo intergenerazionale, allo spazio dei nonni. So che può risultare ripetitivo ma lo sento come qualcosa che lo Spirito Santo preme nel mio cuore: affinché i nostri giovani abbiano visioni, siano “sognatori”, possano affrontare con audacia e coraggio i tempi futuri, è necessario che ascoltino i sogni profetici dei loro padri (cfr Gl 3,2). Se vogliamo che i nostri figli siano formati e preparati per il domani, non è solo imparando lingue (per fare un esempio) che ci riusciranno. E’ necessario che si connettano, che conoscano le loro radici. Solo così potranno volare alto, altrimenti saranno presi dalle “visioni” di altri. E torno su questo; sono ossessionato, forse, ma… I genitori devono fare spazio ai figli per parlare con i nonni. Tante volte il nonno o la nonna è nella casa di riposo e non vanno a trovarli… Devono parlare. Anche scavalcare i genitori, ma prendere le radici dei nonni. I nonni hanno questa qualità della trasmissione della storia, della fede, dell’appartenenza. E lo fanno con saggezza di chi è sulla soglia, pronto ad andarsene. Torno, l’ho detto, qualche volta, sul passo di Gioele 3,2: “I vostri anziani sogneranno e i vostri figli profetizzeranno”. E voi siete il ponte. Oggi i nonni non li lasciamo sognare, li scartiamo. Questa cultura scarta i nonni perché i nonni non producono: questo è “cultura dello scarto”. Ma i nonni possono sognare solo quando si incontrano con la vita nuova, allora sognano, parlano… Ma pensate a Simeone, pensate a quella santa chiacchierona di Anna che andava da una parte all’altra dicendo: “E’ quello! E’ quello!”. E questo è bello, questo è bello. Sono i nonni che sognano e danno ai bambini una appartenenza della quale hanno bisogno. Mi piacerebbe che in questo laboratorio intergenerazionale facciate un esame di coscienza su questo. Trovare la storia concreta nei nonni. E non lasciarli da parte. Non so se questo l’ho detto una volta, ma a me viene alla memoria una storia che da bambino mi aveva insegnato una delle mie due nonne. C’era una volta in una famiglia il nonno vedovo: abitava in una famiglia, ma era invecchiato e quando mangiavano un po’ gli cadeva la zuppa o la bava e si sporcava un po’. E il papà ha deciso di farlo mangiare da solo in cucina, “così possiamo invitare amici…”. Così è stato. Alcuni giorni dopo, torna dal lavoro e trova il bambino che giocava con un martello, i chiodi, i legni… “Ma cosa stai facendo?” – “Un tavolo” – “Un tavolo, perché?” – “Un tavolo per mangiare” – “Ma perché?” – “Perché quando tu invecchi, possa mangiare da solo, lì”. Questo bambino aveva capito con intuizione dove c’erano le radici.

 

3. In movimento

Educare gli adolescenti in movimento. L’adolescenza è una fase di passaggio nella vita non solo dei vostri figli, ma di tutta la famiglia – è tutta la famiglia che è in fase di passaggio –, voi lo sapete bene e lo vivete; e come tale, nella sua globalità, dobbiamo affrontarla. E’ una fase-ponte, e per questo motivo gli adolescenti non sono né di qua né di là, sono in cammino, in transito. Non sono bambini (e non vogliono essere trattati come tali) e non sono adulti (ma vogliono essere trattati come tali, specialmente a livello di privilegi). Vivono proprio questa tensione, prima di tutto in sé stessi e poi con chi li circonda.[1] Cercano sempre il confronto, domandano, discutono tutto, cercano risposte; e a volte non ascoltano le risposte e fanno un’altra domanda prima che i genitori dicano la risposta… Passano attraverso vari stati d’animo, e le famiglie con loro. Però, permettetemi di dirvi che è un tempo prezioso nella vita dei vostri figli. Un tempo difficile, sì. Un tempo di cambiamenti e di instabilità, sì. Una fase che presenta grandi rischi, senza dubbio. Ma, soprattutto, è un tempo di crescita per loro e per tutta la famiglia. L’adolescenza non è una patologia e non possiamo affrontarla come se lo fosse. Un figlio che vive la sua adolescenza (per quanto possa essere difficile per i genitori) è un figlio con futuro e speranza. Mi preoccupa tante volte la tendenza attuale a “medicalizzare” precocemente i nostri ragazzi. Sembra che tutto si risolva medicalizzando, o controllando tutto con lo slogan “sfruttare al massimo il tempo”, e così risulta che l’agenda dei ragazzi è peggio di quella di un alto dirigente.

 

Pertanto insisto: l’adolescenza non è una patologia che dobbiamo combattere. Fa parte della crescita normale, naturale della vita dei nostri ragazzi. Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, gioia e anche angoscia e desolazione. Inquadriamo bene i nostri discernimenti all’interno di processi vitali prevedibili. Esistono margini che è necessario conoscere per non allarmarsi, per non essere nemmeno negligenti, ma per saper accompagnare e aiutare a crescere. Non è tutto indifferente, ma nemmeno tutto ha la stessa importanza. Perciò bisogna discernere quali battaglie sono da fare e quali no. In questo serve molto ascoltare coppie con esperienza, che se pure non ci daranno mai una ricetta, ci aiuteranno con la loro testimonianza a conoscere questo o quel margine o gamma di comportamenti.

 

I nostri ragazzi e le nostre ragazze cercano di essere e vogliono sentirsi – logicamente – protagonisti. Non amano per niente sentirsi comandati o rispondere a “ordini” che vengano dal mondo adulto (seguono le regole di gioco dei loro “complici”). Cercano quell’autonomia complice che li fa sentire di “comandarsi da soli”. E qui dobbiamo stare attenti agli zii, soprattutto a quegli zii che non hanno figli o che non sono sposati… Le prime parolacce, io le ho imparate da uno zio “zitello” [ridono]. Gli zii, per guadagnare la simpatia dei nipoti, tante volte non fanno bene. C’era lo zio che ci dava di nascosto le sigarette, a noi… Cose di quei tempi. E adesso… Non dico che siano cattivi, ma bisogna stare attenti. In questa ricerca di autonomia che vogliono avere i ragazzi e le ragazze troviamo una buona opportunità, specialmente per le scuole, le parrocchie e i movimenti ecclesiali. Stimolare attività che li mettano alla prova, che li facciano sentire protagonisti. Hanno bisogno di questo, aiutiamoli! Loro cercano in molti modi la “vertigine” che li faccia sentire vivi. Dunque, diamogliela! Stimoliamo tutto quello che li aiuta a trasformare i loro sogni in progetti, e che possano scoprire che tutto il potenziale che hanno è un ponte, un passaggio verso una vocazione (nel senso più ampio e bello della parola). Proponiamo loro mete ampie, grandi sfide e aiutiamoli a realizzarle, a raggiungere le loro mete. Non lasciamoli soli. Perciò, sfidiamoli più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi. Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare avanti. Noi vediamo in tante parrocchie, che hanno questa capacità di “prendere” gli adolescenti…: “Questi tre giorni di vacanza, andiamo in montagna, facciamo qualcosa…; o andiamo a imbiancare quella scuola di un quartiere povero che ha bisogno…”. Farli protagonisti di qualcosa.

 

Questo richiede di trovare educatori capaci di impegnarsi nella crescita dei ragazzi. Richiede educatori spinti dall’amore e dalla passione di far crescere in loro la vita dello Spirito di Gesù, di far vedere che essere cristiani esige coraggio ed è una cosa bella. Per educare gli adolescenti di oggi non possiamo continuare a utilizzare un modello di istruzione meramente scolastico, solo di idee. No. Bisogna seguire il ritmo della loro crescita. E’ importante aiutarli ad acquisire autostima, a credere che realmente possono riuscire in ciò che si propongono. In movimento, sempre.

 

4. Una educazione integrata

Questo processo esige di sviluppare in maniera simultanea e integrata i diversi linguaggi che ci costituiscono come persone. Vale a dire insegnare ai nostri ragazzi a integrare tutto ciò che sono e che fanno. Potremmo chiamarla una alfabetizzazione socio-integrata, cioè un’educazione basata sull’intelletto (la testa), gli affetti (il cuore) e l’agire (le mani). Questo offrirà ai nostri ragazzi la possibilità di una crescita armonica a livello non solo personale, ma al tempo stesso sociale. Urge creare luoghi dove la frammentazione sociale non sia lo schema dominante. A tale scopo occorre insegnare a pensare ciò che si sente e si fa, a sentire ciò che si pensa e si fa, a fare ciò che si pensa e si sente. Cioè, integrare i tre linguaggi. Un dinamismo di capacità posto al servizio della persona e della società. Questo aiuterà a far sì che i nostri ragazzi si sentano attivi e protagonisti nei loro processi di crescita e li porterà anche a sentirsi chiamati a partecipare alla costruzione della comunità.

 

Vogliono essere protagonisti: diamo loro spazio perché siano protagonisti, orientandoli – ovviamente – e dando loro gli strumenti per sviluppare tutta questa crescita. Per questo ritengo che l’integrazione armonica dei diversi saperi – della mente, del cuore e delle mani – li aiuterà a costruire la loro personalità. Spesso pensiamo che l’educazione sia impartire conoscenze e lungo il cammino lasciamo degli analfabeti emotivi e ragazzi con tanti progetti incompiuti perché non hanno trovato chi insegnasse loro a “fare”. Abbiamo concentrato l’educazione nel cervello trascurando il cuore e le mani. E questa è anche una forma di frammentazione sociale.

 

In Vaticano, quando le guardie si congedano, io li ricevo, uno a uno, quelli che si congedano. L’altro ieri ne ho ricevuti sei. Uno a uno. “Cosa fai, cosa farete…”. Ringrazio per il servizio. E uno mi ha detto così: “Io andrò a fare il carpentiere. Vorrei fare il falegname, ma farò il carpentiere. Perché mio papà mi ha insegnato tante cose di questo, e mio  nonno anche”. Il desiderio di “fare”: questo ragazzo è stato bene educato con il linguaggio del fare; e anche il cuore è buono, perché pensava al papà e al nonno: un cuore affettivo buono. Imparare “come si fa”… Questo mi ha colpito.

 

5. Sì all’adolescenza, no alla competizione

Come ultimo elemento, è importante che riflettiamo su una dinamica ambientale che ci interpella tutti. E’ interessante osservare come i ragazzi e le ragazze vogliono essere “grandi” e i “grandi” vogliono essere o sono diventati adolescenti.

Non possiamo ignorare questa cultura, dal momento che è un'aria che tutti respiriamo. Oggi c’è una specie di competizione tra genitori e figli; diversa da quella di altre epoche in cui normalmente si verificava il confronto tra gli uni e gli altri. Oggi siamo passati dal confronto alla competizione, che sono due cose diverse. Sono due dinamiche diverse dello spirito. I nostri ragazzi oggi trovano molta competizione e poche persone con cui confrontarsi. Il mondo adulto ha accolto come paradigma e modello di successo l’“eterna giovinezza”. Sembra che crescere, invecchiare, “stagionarsi” sia un male. E’ sinonimo di vita frustrata o esaurita. Oggi sembra che tutto vada mascherato e dissimulato. Come se il fatto stesso di vivere non avesse senso. L’apparenza, non invecchiare, truccarsi… A me fa pena quando vedo quelli che si tingono i capelli.

 

Com’è triste che qualcuno voglia fare il “lifting” al cuore! E oggi si usa più la parola “lifting” che la parola “cuore”! Com’è doloroso che qualcuno voglia cancellare le “rughe” di tanti incontri, di tante gioie e tristezze! Mi viene in mente quando alla grande Anna Magnani hanno consigliato di fare il lifting, ha detto: “No, queste rughe mi sono costate tutta la vita: sono preziose!”.

 

In un certo senso questa è una delle minacce “inconsapevoli” più pericolose nell’educazione dei nostri adolescenti: escluderli dai loro processi di crescita perché gli adulti occupano il loro posto. E troviamo tanti genitori adolescenti, tanti. Adulti che non vogliono essere adulti e vogliono giocare a essere adolescenti per sempre. Questa “emarginazione” può aumentare una tendenza naturale che hanno i ragazzi a isolarsi o a frenare i loro processi di crescita per mancanza di confronto. C’è la competizione, ma non il confronto.

 

6. La “golosità” spirituale

Non vorrei concludere senza questo aspetto che può essere un argomento-chiave che attraversa tutti i laboratori che farete: è trasversale. E’ il tema dell’austerità. Viviamo in un contesto di consumismo molto forte… E facendo un collegamento tra il consumismo e quello che ho appena detto: dopo il cibo, le medicine e i vestiti, che sono essenziali per la vita, le spese più forti sono i prodotti di bellezza, i cosmetici. Questo è statistica! I cosmetici. E’ brutto dire questo. E la cosmetica, che era una cosa più delle donne, adesso è uguale in entrambi i sessi. Dopo le spese di base, la prima è la cosmetica; e poi, le mascotte [gli animali da compagnia]: alimentazione, veterinario… Queste sono statistiche. Ma questo è un altro argomento, quello delle mascotte, che non toccherò adesso: penseremo più avanti a questo. Ma torniamo al tema dell’austerità. Viviamo, ho detto, in un contesto di consumismo molto forte; sembra che siamo spinti a consumare consumo, nel senso che l’importante è consumare sempre. Un tempo, alle persone che avevano questo problema si diceva che avevano una dipendenza dalla spesa. Oggi non si dice più: tutti siamo in questo ritmo di consumismo. Perciò, è urgente recuperare quel principio spirituale così importante e svalutato: l’austerità. Siamo entrati in una voragine di consumo e siamo indotti a credere che valiamo per quanto siamo capaci di produrre e di consumare, per quanto siamo capaci di avere. Educare all’austerità è una ricchezza incomparabile. Risveglia l’ingegno e la creatività, genera possibilità per l’immaginazione e specialmente apre al lavoro in équipe, in solidarietà. Apre agli altri. Esiste una specie di “golosità spirituale”. Quell’atteggiamento dei golosi che, invece di mangiare, divorano tutto ciò che li circonda (sembrano ingozzarsi mangiando).

 

Credo che ci faccia bene educarci meglio, come famiglia, in questa “golosità” e dare spazio all’austerità come via per incontrarsi, gettare ponti, aprire spazi, crescere con gli altri e per gli altri. Questo lo può fare solo chi sa essere austero; altrimenti è un semplice “goloso”.

In Amoris laetitia vi dicevo: «La storia di una famiglia è solcata da crisi di ogni genere, che sono anche parte della sua drammatica bellezza. Bisogna aiutare a scoprire che una crisi superata non porta ad una relazione meno intensa, ma a migliorare, a sedimentare e a maturare il vino dell’unione.

Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo, a partire dalle possibilità aperte da una nuova tappa» (n. 232). Mi sembra importante vivere l’educazione dei figli a partire da questa prospettiva, come una chiamata che il Signore ci fa, come famiglia, a fare di questo passaggio un passaggio di crescita, per imparare ad assaporare meglio la vita che Lui ci regala.

Questo è quello che mi è sembrato di dirvi su questo tema.

(Parole di ringraziamento del cardinale Vallini)

[Benedizione]

Grazie tante! Lavorate bene. Vi auguro il meglio. E avanti!

 

[1] «Per i giovani l’avvenire è lungo e il passato breve; infatti all’inizio del mattino non v’è nulla della giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto. Essi sono facili a lasciarsi ingannare, per il motivo che dicemmo, cioè perché sperano facilmente. E sono più coraggiosi; poiché sono impetuosi e facili a sperare e di queste due qualità la prima impedisce loro di aver paura, la seconda li rende fiduciosi; infatti nessuno teme quando è adirato, e lo sperare qualche bene dona fiducia. E sono indignabili» (Aristotele, La retorica, II, 12, 2). 



 

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Messaggio Cristiano
INCONTRO CON GLI STUDENTI IN OCCASIONE DEL GIUBILEO DEL MONDO EDUCATIVO - Aula Paolo VI, 30 ottobre 2025

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,
La pace sia con voi!

Cari ragazzi, care ragazze, buongiorno!

Che gioia incontrarvi! Grazie a voi! Ho atteso questo momento con grande emozione: la vostra compagnia, infatti, mi fa ricordare gli anni nei quali insegnavo matematica a giovani vivaci come voi. Vi ringrazio per aver risposto così, per essere qui oggi, per condividere le riflessioni e le speranze che, attraverso di voi, consegno ai nostri amici sparsi in tutto il mondo.

Vorrei cominciare ricordando Pier Giorgio Frassati, uno studente italiano che, come sapete, è stato canonizzato durante quest’anno giubilare. Col suo animo appassionato per Dio e per il prossimo, questo giovane santo coniò due frasi che ripeteva spesso, quasi come un motto, lui diceva: “Vivere senza fede non è vivere, ma vivacchiare” e ancora: “Verso l’alto”. Sono affermazioni molto vere e incoraggianti. Anche a voi, perciò, dico: abbiate l’audacia di vivere in pienezza. Non accontentatevi delle apparenze o delle mode: un’esistenza appiattita su quel che passa non ci soddisfa mai. Invece, ognuno dica nel proprio cuore: “Sogno di più, Signore, ho voglia di più: ispirami tu!”. Questo desiderio è la vostra forza ed esprime bene l’impegno di giovani che progettano una società migliore, della quale non accettano di restare spettatori. Vi incoraggio, perciò, a tendere costantemente “verso l’alto”, accendendo il faro della speranza nelle ore buie della storia. Come sarebbe bello se un giorno la vostra generazione fosse riconosciuta come la “generazione plus”, ricordata per la marcia in più che saprete dare alla Chiesa e al mondo.

Questo, cari ragazzi, non può rimanere il sogno di una persona sola: uniamoci allora per realizzarlo, testimoniando insieme la gioia di credere in Gesù Cristo. Come possiamo riuscirci? La risposta è essenziale: attraverso l’educazione, uno degli strumenti più belli e potenti per cambiare il mondo.

L’amato Papa Francesco, cinque anni fa, ha lanciato il grande progetto del Patto Educativo Globale, e cioè un’alleanza di tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nell’ambito dell’educazione e della cultura, per coinvolgere le giovani generazioni in una fraternità universale. Voi, infatti, non siete solo destinatari dell’educazione, ma i suoi protagonisti. Perciò oggi vi chiedo di allearvi per aprire una nuova stagione educativa, nella quale tutti — giovani e adulti — diventiamo credibili testimoni di verità e di pace. Per questo vi dico: siete chiamati a essere truth-speakers e peace-makers, persone di parola e costruttori di pace. Coinvolgete i vostri coetanei nella ricerca della verità e nella coltivazione della pace, esprimendo queste due passioni con la vostra vita, con le parole e con i gesti quotidiani.

In proposito, all’esempio di san Pier Giorgio Frassati unisco una riflessione di san John Henry Newman, un santo studioso, che presto sarà proclamato Dottore della Chiesa. Egli diceva che il sapere si moltiplica quando viene condiviso e che è nella conversazione delle menti che si accende la fiamma della verità. Così la vera pace nasce quando tante vite, come stelle, si uniscono e formano un disegno. Insieme possiamo formare costellazioni educative, che orientano il cammino futuro.

Da ex professore di matematica e fisica, permettetemi di fare con voi qualche calcolo. Avrete l’esame di matematica tra poco forse? Vediamo… Sapete quante stelle ci sono nell’universo osservabile? È un numero impressionante e meraviglioso: un sestilione di stelle – un 1 seguito da 21 zeri! Se le dividessimo tra gli 8 miliardi di abitanti della Terra, ogni uomo avrebbe per sé centinaia di miliardi di stelle. Ad occhio nudo, nelle notti limpide, possiamo scorgerne circa cinquemila. Anche se le stelle sono miliardi di miliardi, vediamo solo le costellazioni più vicine: queste però ci indicano una direzione, come quando si naviga per mare.

Da sempre i viaggiatori hanno trovato la rotta nelle stelle. I marinai seguivano la Stella Polare; i Polinesiani attraversavano l’oceano memorizzando mappe stellari. Secondo i contadini delle Ande, che ho incontrato da missionario in Perù, il cielo è un libro aperto che segna le stagioni della semina, della tosatura, dei cicli della vita. Persino i Magi hanno seguito una stella per arrivare a Betlemme ad adorare Gesù Bambino.

Come loro, anche voi avete stelle-guida: i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti, i buoni amici, bussole per non perdervi nelle vicende liete e tristi della vita. Come loro, siete chiamati a diventare a vostra volta luminosi testimoni per chi vi sta accanto. Ma, come dicevo, una stella da sola resta un punto isolato. Quando si unisce alle altre, invece, forma una costellazione, come la Croce del Sud. Così siete voi: ognuno è una stella, e insieme siete chiamati a orientare il futuro. L’educazione unisce le persone in comunità vive e organizza le idee in costellazioni di senso. Come scrive il profeta Daniele, «quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno» (Dn 12,3): che meraviglia: siamo stelle, sì, perché siamo scintille di Dio. Educare significa coltivare questo dono.

L’educazione, infatti, ci insegna a guardare in alto, sempre più in alto. Quando Galileo Galilei puntò il cannocchiale al cielo, scoprì mondi nuovi: le lune di Giove, le montagne della Luna. Così è l’educazione: un cannocchiale che vi permette di guardare oltre, di scoprire ciò che da soli non vedreste. Non fermatevi, allora, a guardare lo smartphone e i suoi velocissimi frammenti d’immagini: guardate al Cielo, guardate verso l’alto.

Cari giovani, voi stessi avete suggerito la prima delle nuove sfide che ci impegnano nel nostro Patto Educativo Globale, esprimendo un desiderio forte e chiaro; avete detto: “Aiutateci nell’educazione alla vita interiore.” Sono rimasto veramente colpito da questa richiesta. Non basta avere grande scienza, se poi non sappiamo chi siamo e qual è il senso della vita. Senza silenzio, senza ascolto, senza preghiera, perfino le stelle si spengono. Possiamo conoscere molto del mondo e ignorare il nostro cuore: anche a voi sarà capitato di percepire quella sensazione di vuoto, di inquietudine che non lascia in pace. Nei casi più gravi, assistiamo a episodi di disagio, violenza, bullismo, sopraffazione, persino a giovani che si isolano e non vogliono più rapportarsi con gli altri. Penso che dietro a queste sofferenze ci sia anche il vuoto scavato da una società incapace di educare la dimensione spirituale, non solo tecnica, sociale e morale della persona umana.

Da giovane, sant’Agostino era un ragazzo brillante, ma profondamente insoddisfatto, come leggiamo nella sua autobiografia, Le Confessioni. Egli cercava dappertutto, tra carriera e piaceri, e ne combinava di tutti i colori, senza però trovare né verità né pace. Finché non ha scoperto Dio nel proprio cuore, scrivendo una frase densissima, che vale per tutti noi: «Il mio cuore è inquieto finché non riposa in Te». Ecco allora che cosa significa educare alla vita interiore: ascoltare la nostra inquietudine, non fuggirla né ingozzarla con ciò che non sazia. Il nostro desiderio d’infinito è la bussola che ci dice: “Non accontentarti, sei fatto per qualcosa di più grande”, “non vivacchiare, ma vivi”.

La seconda delle nuove sfide educative è un impegno che ci tocca ogni giorno e del quale voi siete maestri: l’educazione al digitale. Ci vivete dentro, e non è un male: ci sono opportunità enormi di studio e comunicazione. Non lasciate però che sia l’algoritmo a scrivere la vostra storia! Siate voi gli autori: usate con saggezza la tecnologia, ma non lasciate che la tecnologia usi voi.

Anche l’intelligenza artificiale è una grande novità – una delle rerum novarum, cioè delle cose nuove – del nostro tempo: non basta tuttavia essere “intelligenti” nella realtà virtuale, ma bisogna essere umani con gli altri, coltivando un’intelligenza emotiva, spirituale, sociale, ecologica. Perciò vi dico: educatevi ad umanizzare il digitale, costruendolo come uno spazio di fraternità e di creatività, non una gabbia dove rinchiudervi, non una dipendenza o una fuga. Anziché turisti della rete, siate profeti nel mondo digitale!

A questo riguardo, abbiamo davanti un attualissimo esempio di santità: San Carlo Acutis. Un ragazzo che non si è fatto schiavo della rete, usandola invece con abilità per il bene. San Carlo unì la sua bella fede alla passione per l’informatica, creando un sito sui miracoli eucaristici, e facendo così di Internet uno strumento per evangelizzare. La sua iniziativa ci insegna che il digitale è educativo quando non ci rinchiude in noi stessi, ma ci apre agli altri: quando non ti mette al centro, ma ti concentra su Dio e sugli altri.

Carissimi, arriviamo infine alla terza nuova grande sfida che oggi vi affido e che sta al cuore del nuovo Patto Educativo Globale: la educazione alla pace. Vedete bene quanto il nostro futuro venga minacciato dalla guerra e dall’odio che dividono i popoli. Questo futuro può essere cambiato? Certamente! Come? Con un’educazione alla pace disarmata e disarmante. Non basta, infatti, far tacere le armi: occorre disarmare i cuori, rinunciando a ogni violenza e volgarità. In tal modo, un’educazione disarmante e disarmata crea uguaglianza e crescita per tutti, riconoscendo l’uguale dignità di ogni ragazzo e ragazza, senza mai dividere i giovani tra pochi privilegiati che hanno accesso a scuole costosissime e tanti che non accesso all’educazione. Con grande fiducia in voi, vi invito a essere operatori di pace anzitutto lì dove vivete, in famiglia, a scuola, nello sport e tra gli amici, andando incontro a chi proviene da un’altra cultura.

Per concludere, carissimi, il vostro sguardo non sia rivolto alle stelle cadenti, cui si affidano desideri fragili. Guardate ancora più verso l’alto, verso Gesù Cristo, «il sole di giustizia» (cfr Lc 1,78), che vi guiderà sempre nei sentieri della vita.

LEONE XIV