I Cappuccini


Vita del convento di Savona Quiliano

PRESEPE ARTISTICO

Il presepe sarà aperto al termine della Santa Messa del 24 Dicembre 2024 

Resterà aperto fino a domenica 12 Gennaio 2025


Documenti allegati

 Storia dei Cappuccini in Savona, tratta dall'opera "I Cappuccini genovesi" di p. Francesco Saverio Molfino

 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 17 settembre 2025

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 7. La morte. «Un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto» (Gv 19,40-41)

Cari fratelli e sorelle,

nel nostro cammino di catechesi su Gesù nostra speranza, oggi contempliamo il mistero del Sabato Santo. Il Figlio di Dio giace nel sepolcro. Ma questa sua “assenza” non è un vuoto: è attesa, pienezza trattenuta, promessa custodita nel buio. È il giorno del grande silenzio, in cui il cielo sembra muto e la terra immobile, ma è proprio lì che si compie il mistero più profondo della fede cristiana. È un silenzio gravido di senso, come il grembo di una madre che custodisce il figlio non ancora nato, ma già vivo.

Il corpo di Gesù, calato dalla croce, viene fasciato con cura, come si fa con ciò che è prezioso. L’evangelista Giovanni ci dice che fu sepolto in un giardino, dentro «un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto» (Gv 19,41). Nulla è lasciato al caso. Quel giardino richiama l’Eden perduto, il luogo in cui Dio e l’uomo erano uniti. E quel sepolcro mai usato parla di qualcosa che deve ancora accadere: è una soglia, non un termine. All’inizio della creazione Dio aveva piantato un giardino, ora anche la nuova creazione prende avvio in un giardino: con una tomba chiusa che, presto, si aprirà.

Il Sabato Santo è anche un giorno di riposo. Secondo la Legge ebraica, nel settimo giorno non si deve lavorare: infatti, dopo sei giorni di creazione, Dio si riposò (cfr Gen 2,2). Ora anche il Figlio, dopo aver completato la sua opera di salvezza, riposa. Non perché è stanco, ma perché ha terminato il suo lavoro. Non perché si è arreso, ma perché ha amato fino in fondo. Non c’è più nulla da aggiungere. Questo riposo è il sigillo dell’opera compiuta, è la conferma che ciò che doveva essere fatto è stato davvero portato a termine. È un riposo pieno della presenza nascosta del Signore.

Noi facciamo fatica a fermarci e a riposare. Viviamo come se la vita non fosse mai abbastanza. Corriamo per produrre, per dimostrare, per non perdere terreno. Ma il Vangelo ci insegna che saperci fermare è un gesto di fiducia che dobbiamo imparare a compiere. Il Sabato Santo ci invita a scoprire che la vita non dipende sempre da ciò che facciamo, ma anche da come sappiamo congedarci da quanto abbiamo potuto fare.

Nel sepolcro, Gesù, la Parola vivente del Padre, tace. Ma è proprio in quel silenzio che la vita nuova inizia a fermentare. Come un seme nella terra, come il buio prima dell’alba. Dio non ha paura del tempo che passa, perché è Signore anche dell’attesa. Così, anche il nostro tempo “inutile”, quello delle pause, dei vuoti, dei momenti sterili, può diventare grembo di risurrezione. Ogni silenzio accolto può essere la premessa di una Parola nuova. Ogni tempo sospeso può diventare tempo di grazia, se lo offriamo a Dio.

Gesù, sepolto nella terra, è il volto mite di un Dio che non occupa tutto lo spazio. È il Dio che lascia fare, che attende, che si ritira per lasciare a noi la libertà. È il Dio che si fida, anche quando tutto sembra finito. E noi, in quel sabato sospeso, impariamo che non dobbiamo avere fretta di risorgere: prima occorre restare, accogliere il silenzio, lasciarci abbracciare dal limite. A volte cerchiamo risposte rapide, soluzioni immediate. Ma Dio lavora nel profondo, nel tempo lento della fiducia. Il sabato della sepoltura diventa così il grembo da cui può sgorgare la forza di una luce invincibile, quella della Pasqua.

Cari amici, la speranza cristiana non nasce nel rumore, ma nel silenzio di un’attesa abitata dall’amore. Non è figlia dell’euforia, ma dell’abbandono fiducioso. Ce lo insegna la Vergine Maria: lei incarna questa attesa, questa fiducia, questa speranza. Quando ci sembra che tutto sia fermo, che la vita sia una strada interrotta, ricordiamoci del Sabato Santo. Anche nel sepolcro, Dio sta preparando la sorpresa più grande. E se sappiamo accogliere con gratitudine quello che è stato, scopriremo che, proprio nella piccolezza e nel silenzio, Dio ama trasfigurare la realtà, facendo nuove tutte le cose con la fedeltà del suo amore. La vera gioia nasce dall’attesa abitata, dalla fede paziente, dalla speranza che quanto è vissuto nell’amore, certo, risorgerà a vita eterna.

ANGELUS - 14 Settembre

Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Oggi la Chiesa celebra la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce, in cui ricorda il ritrovamento del legno della Croce da parte di Sant’Elena, a Gerusalemme, nel IV secolo, e la restituzione della preziosa Reliquia alla Città santa, ad opera dell’Imperatore Eraclio.

Ma cosa vuol dire per noi, oggi, celebrare questa Festa? Ci aiuta a comprenderlo il Vangelo che la liturgia ci propone (cfr Gv 3,13-17). La scena si svolge di notte: Nicodemo, uno dei capi dei Giudei, persona retta e dalla mente aperta (cfr Gv 7,50-51), viene a incontrare Gesù. Ha bisogno di luce, di guida: cerca Dio e chiede aiuto al Maestro di Nazaret, perché in Lui riconosce un profeta, un uomo che compie segni straordinari.

Il Signore lo accoglie, lo ascolta, e alla fine gli rivela che il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato, «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,15), e aggiunge: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (cfr v. 16). Nicodemo, che forse al momento non comprende appieno il senso di queste parole, lo potrà fare certamente quando, dopo la crocifissione, aiuterà a seppellire il corpo del Salvatore (cfr Gv 19,39): capirà che Dio, per redimere gli uomini, si è fatto uomo ed è morto sulla croce.

Gesù parla di questo a Nicodemo, richiamando un episodio dell’Antico Testamento (cfr Nm 21,4-9), quando nel deserto gli Israeliti, assaliti da serpenti velenosi, si salvavano guardando il serpente di bronzo che Mosè, obbedendo al comando di Dio, aveva fatto e posto sopra un’asta.

Dio ci ha salvati mostrandosi a noi, offrendosi come nostro compagno, maestro, medico, amico, fino a farsi per noi Pane spezzato nell’Eucaristia. E per compiere quest’opera si è servito di uno degli strumenti di morte più crudeli che l’uomo abbia mai inventato: la croce.

Per questo oggi noi ne celebriamo l’“esaltazione”: per l’amore immenso con cui Dio, abbracciandola per la nostra salvezza, l’ha trasformata da mezzo di morte a strumento di vita, insegnandoci che niente può separarci da Lui (cfr Rm 8,35-39) e che la sua carità è più grande del nostro stesso peccato (cfr Francesco, Catechesi, 30 marzo 2016).

Chiediamo allora, per intercessione di Maria, la Madre presente al Calvario vicino al suo Figlio, che anche in noi si radichi e cresca il suo amore che salva, e che anche noi sappiamo donarci gli uni agli altri, come Lui si è donato tutto a tutti.

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Domani ricorre il 60° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, un’intuizione profetica di San Paolo VI, affinché i Vescovi potessero ancora di più e meglio esercitare la comunione con il Successore di Pietro. Auspico che questa ricorrenza susciti un rinnovato impegno per l’unità, per la sinodalità e per la missione della Chiesa.

Carissimi, sembra che sappiate, oggi compio settant’anni. Rendo grazie al Signore e ai miei genitori; e ringrazio quanti hanno avuto un ricordo nella preghiera. Tante grazie a tutti! Grazie! Buona domenica!

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. III. La Pasqua di Gesù. 6. La morte. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37)

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno e grazie per la vostra presenza, una bella testimonianza!

Oggi contempliamo il vertice della vita di Gesù in questo mondo: la sua morte in croce. I Vangeli attestano un particolare molto prezioso, che merita di essere contemplato con l’intelligenza della fede. Sulla croce, Gesù non muore in silenzio. Non si spegne lentamente, come una luce che si consuma, ma lascia la vita con un grido: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,37). Quel grido racchiude tutto: dolore, abbandono, fede, offerta. Non è solo la voce di un corpo che cede, ma il segno ultimo di una vita che si consegna.

Il grido di Gesù è preceduto da una domanda, una delle più laceranti che possano essere pronunciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il primo verso del Salmo 22, ma sulle labbra di Gesù assume un peso unico. Il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, sperimenta ora il silenzio, l’assenza, l’abisso. Non si tratta di una crisi di fede, ma dell’ultima tappa di un amore che si dona fino in fondo. Il grido di Gesù non è disperazione, ma sincerità, verità portata al limite, fiducia che resiste anche quando tutto tace.

In quel momento, il cielo si oscura e il velo del tempio si squarcia (cfr Mc 15,33.38). È come se il creato stesso partecipasse a quel dolore, e insieme rivelasse qualcosa di nuovo: Dio non abita più dietro un velo, il suo volto è ora pienamente visibile nel Crocifisso. È lì, in quell’uomo straziato, che si manifesta l’amore più grande. È lì che possiamo riconoscere un Dio che non resta distante, ma attraversa fino in fondo il nostro dolore.

Il centurione, un pagano, lo capisce. Non perché ha ascoltato un discorso, ma perché ha visto morire Gesù in quel modo: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). È la prima professione di fede dopo la morte di Gesù. È il frutto di un grido che non si è disperso nel vento, ma ha toccato un cuore. A volte, ciò che non riusciamo a dire a parole lo esprimiamo con la voce. Quando il cuore è pieno, grida. E questo non è sempre un segno di debolezza, può essere un atto profondo di umanità.

Noi siamo abituati a pensare al grido come a qualcosa di scomposto, da reprimere. Il Vangelo conferisce al nostro grido un valore immenso, ricordandoci che può essere invocazione, protesta, desiderio, consegna. Addirittura, può essere la forma estrema della preghiera, quando non ci restano più parole. In quel grido, Gesù ha messo tutto ciò che gli restava: tutto il suo amore, tutta la sua speranza.

Sì, perché anche questo c’è, nel gridare: una speranza che non si rassegna. Si grida quando si crede che qualcuno possa ancora ascoltare. Si grida non per disperazione, ma per desiderio. Gesù non ha gridato contro il Padre, ma verso di Lui. Anche nel silenzio, era convinto che il Padre era lì. E così ci ha mostrato che la nostra speranza può gridare, persino quando tutto sembra perduto.

Gridare diventa allora un gesto spirituale. Non è solo il primo atto della nostra nascita – quando veniamo al mondo piangendo –: è anche un modo per restare vivi. Si grida quando si soffre, ma pure quando si ama, si chiama, si invoca. Gridare è dire che ci siamo, che non vogliamo spegnerci nel silenzio, che abbiamo ancora qualcosa da offrire.

Nel viaggio della vita, ci sono momenti in cui trattenere tutto dentro può consumarci lentamente. Gesù ci insegna a non avere paura del grido, purché sia sincero, umile, orientato al Padre. Un grido non è mai inutile, se nasce dall’amore. E non è mai ignorato, se è consegnato a Dio. È una via per non cedere al cinismo, per continuare a credere che un altro mondo è possibile.

Cari fratelli e sorelle, impariamo anche questo dal Signore Gesù: impariamo il grido della speranza quando giunge l’ora della prova estrema. Non per ferire, ma per affidarci. Non per urlare contro qualcuno, ma per aprire il cuore. Se il nostro grido sarà vero, potrà essere la soglia di una nuova luce, di una nuova nascita. Come per Gesù: quando tutto sembrava finito, in realtà la salvezza stava per iniziare. Se manifestata con la fiducia e la libertà dei figli di Dio, la voce sofferta della nostra umanità, unita alla voce di Cristo, può diventare sorgente di speranza per noi e per chi ci sta accanto.

LEONE XIV