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Africa di ieri e di oggi


Tempo di speranza

3 Febbraio 2017

Un enorme tappeto di tende ammassate in modo disordinato nei pressi dell’aeroporto. Fu questa la prima immagine che ebbe Papa Francesco di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, nel novembre 2015, prima ancora che il suo aereo atterrasse.

All’avvio della sua visita in Centrafrica, dove aprì il Giubileo della Misericordia, Bergoglio rimase impressionato da quel mesto scenario, simbolo di un Paese che costringe all’indigenza molti suoi figli.

 

Oggi il campo profughi di Mpoko resta però un ricordo. Come annunciano Agenzia NovaIl Messaggero, le autorità civili lo hanno chiuso, invitando centinaia di migliaia di persone a tornare alle proprie case.

L’immensa tendopoli fu il rifugio di circa 100mila persone, scappate alle violenze della guerra scoppiata nel 2013 in Centrafrica.

 

“La chiusura di Mpoko è una buona notizia e un segno di stabilizzazione del paese. Ma le persone hanno ben poco a cui tornare e un quarto della popolazione vive ancora lontano dalle proprie case”, ha dichiarato Loris De Filippi, presidente di Medici senza frontiere, che ha lavorato in Repubblica Centrafricana all’inizio della crisi.

 

Bangui, Repubblica Centrafricana

 
 
Dopo la visita del Papa, nella capitale della Repubblica Centrafricana il cambiamento si tocca con mano. Nessuno più vuole cedere alla violenza. Il messaggio di pace portato dalle focolarine anche ai Pigmei di Bambio.
 
 

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A Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, che nel novembre scorso papa Francesco ha definito “capitale spirituale del mondo”, «niente è più come prima». Ad affermarlo è Fidelia, focolarina congolese, da sette anni a Bangui, e che dal 2012 e fino al settembre scorso, aveva visto con i suoi occhi il susseguirsi di scontri armati che a più riprese avevano devastato città e villaggi, seminando terrore e morte. Ora le cose appaiono decisamente cambiate ed è pensiero comune che sia stata proprio la visita papale a segnare questa inversione di rotta. «Ovunque – continua Fidelia -, anche nelle province, si parla ‘di un prima e di un dopo’. Ad esempio, domenica scorsa c’è stato il secondo turno di votazioni per l’elezione del nuovo presidente e tutto si è svolto nel migliore dei modi. E’stato così anche durante tutta la campagna elettorale. Eppure, sia l’uno che l’altra potevano essere occasioni di violenza. Invece no. Nessuno qui vuole cedere alla violenza. Dicono che essendo venuto il Papa è come se fosse venuto Dio stesso, e dunque che non si può più tornare indietro. Sentono che il Papa ci ha fatto ‘passare all’altra riva’ e che dobbiamo andare avanti, fino alla pace vera e duratura. Siamo tutti convinti che per giungere ad una coesione sociale dobbiamo vivere il perdono, la misericordia, la riconciliazione. Si avverte che sotto a queste parole c’è un vero cambiamento di mentalità, di comportamento. Anche il modo di parlare gli uni degli altri (i cristiani dei musulmani e viceversa) è cambiato!».

 

Sono espressioni, queste di Fidelia, che trasmettono davvero grande speranza, non solo per la Repubblica Centrafricana, ma per tutti quei punti nella Terra dove è più che mai urgente far tacere le armi per cercare le soluzione nel dialogo.

 

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Fidelia ci porta a conoscere anche altre sfaccettature della realtà Centrafricana. Ci racconta, per esempio, che in un recente fine settimana, con altre tre persone di Bangui ha percorso 400 km per raggiungere la piccola città di Bambio, dove una ventina di anni fa, attorno ad un missionario cappuccino, si era formata una comunità animata dallo spirito dei Focolari. «Abbiamo trovato lì diverse famiglie, tanti giovani, tutti ancora molto motivati – racconta Fidelia -. E anche se padre Umberto era dovuto rientrare in Italia, loro per tutti questi anni hanno continuato a riunirsi per incoraggiarsi reciprocamente a vivere il Vangelo, aiutandosi con un libro di Chiara Lubich che egli stesso aveva loro lasciato».

 

Conoscere questa comunità, che per vent’anni ha saputo mantenere la fiamma del Vangelo accesa, li ha riempiti di stupore e di gioia. Ma non immaginavano che in quel viaggio ci fosse un’altra sorpresa ad attenderli. Nei dintorni di Bambio ci sono alcuni villaggi abitati dai Pigmei. È un popolo caratteristico per la bassa statura, che vive prevalentemente nei boschi e che segue leggi e consuetudini proprie. «Tanti pensano che non sia facile trovare un rapporto con loro – spiega ancora Fidelia – ma dovendo attraversare i loro insediamenti, è stato spontaneo fermarci a salutarli e spiegare perché ci trovavamo da quelle parti. Incoraggiati dalla loro apertura e disponibilità, ci siamo conosciuti, abbiamo dialogato scambiandoci i valori in cui crediamo. Alcuni di loro ci hanno dimostrato grande sensibilità per quanto avevamo detto riguardo alla spiritualità dell’unità. Siamo rimasti d’accordo che a Pasqua saremmo ritornati per continuare nella conoscenza e nello scambio reciproci».

 

 

Padre Valentino, parroco

 

Per più di vent’anni p. Valentino ebbe la cura pastorale di una parrocchia di Bouar (RCA),  dedicata alla Madonna di Fatima. Allora egli era davvero un “tuttofare”, per cui la gente lo chiamava semplicemente “waka-waka” (= presto presto!).

Dal momento che le iniziative in corso erano molteplici, aveva appeso alla porta del suo ufficio una specie di disco-orario, che  metteva a posto ogni volta che partiva: “sono al campo giochi sono nel tale quartieresono all’ospedale oppure …  sono qui in chiesa a confessare…” .

Due sue iniziative hanno avuto molto successo.

La prima è questa. Non essendovi mezzi pubblici per portare all’ospedale i malati, i parenti dovevano trasportarli mettendo il paziente o morente in una rete, sostenuta da un palo.  P. Valentino aveva inventato una specie di carretto all’asiatica, con due grosse ruote, che poteva essere portato dappertutto. Era lui stesso a prendersene cura. Poiché l’iniziativa ebbe successo, ne fabbricò altri in serie.  

Inoltre, p. Valentino si diede da fare perché ogni quartiere della parrocchia avesse la sua cappella, come luogo d’incontro dei numerosi catecumeni e cristiani. Per vari anni non mancarono le cappelle in costruzione. Anche a motivo di questo, il parroco si esercitò a fare di tutto: dal meccanico (sua prima competenza) al muratore, dal falegname all’elettricista.

Venendo in Italia, egli si recava fedelmente dalle edizioni San Paolo-Film, che gli regalavano serie di film di western, messi da parte per qualche guasto …. Così i giovani erano diventati i prediletti, dal cinema al foot, alla pallacanestro. Di cose da fare non ne mancavano.

 

Una sera egli era salito su una lunga scala a pioli, per sistemare i lampioni che avrebbero illuminato il campo da gioco (da notare che i ragazzi di Bouar si battevano per il primo posto nella classifica nazionale con quelli di Bangui, la capitale). Mentre era attento al suo lavoro e sicuro di sé, la scala gli scivolò di sotto i piedi … Non gli restava  tempo per riflettere sul da farsi e si lasciò cadere in perpendicolare, con i piedi pronti all’impatto con la terra battuta, come da tempo aveva imparato dalle regole dello yoga.

Il colpo fu così forte che non ebbe la capacità di rialzarsi. Fu portato nella sua stanza dai suoi giovani e lì vi rimase coricato per una buona “quarantena”. I dottori che lo visitarono furono tutti unanimi nel costatare che la caduta l’avrebbe sicuramente “insaccato” se … non fosse stato a conoscenza degli esercizi dello yoga.

Interessante fu l’affluenza della gente, specie delle anziane, che si prostravano ai suoi piedi e vi sputavano sopra, secondo l’uso dei “gbaya”, … per ringraziare Dio del dono ricevuto. E lui    sembrava …un santo nella gloria del Bernini!  (Un segno di benevolenza e di benedizione dei parenti è quello di leccare il volto del figlio e  soffiargli nelle orecchie).

 

In data recente, il 26 novembre, p. Valentino scrive : “Sono sceso dal nord a Bouar (250 km) e sono andato a Herman per salutare alcune persone che avevo conosciuto in quei primi tempi, tra cui il vecchio babà Aubin Zelo. Ci siamo salutati con le lacrime agli occhi. Egli si trovava nella sua piccola  bottega di quarant’anni fa. 

Ricordo come allora un fatterello che era accaduto ad Aubin. Uscendo da casa sua per venire alla S. Messa, con meraviglia aveva notato nella sua veranda un amuleto (“Yoro” = specie di sortilegio). Venne subito a cercarmi ed esterrefatto mi invitò a vedere il sacrilegio di un occulto stregone … Andai, presi il piccolo involtino maledetto e lo bruciai.  Dopo aspersi la sua casa con acqua benedetta, aggiungendo semplicemente: “Stai tranquillo!”. Per ringraziarmi aprì il suo borsellino e mi diede quattro spiccioli da cinquanta! che allora avevano il grande valore di ben 600 lire … Una vera grossa somma per Aubin!”

 

Continua p Valentino: “Le piogge sono scarse e il granoturco e il miglio non sono ancora maturi, per cui ho celebrato la Sta Messa sulla collina che domina le piantagioni. Nell’omelia ho detto che “dobbiamo essere in pace gli uni con gli altri, per attirare la benevolenza di Dio”. Subito una signora è andata a gettarsi ai piedi di un’altra, per chiederle perdono per un diverbio che c’era tra loro.

 

 

Padre Cipriano, “broussard”


Il termine francese “broussard” significa: colui che da solo vive nella boscaglia. Un missionario “broussard” è colui che svolge il suo apostolato nei piccoli villaggi, sparsi nella boscaglia.

Con Cipriano ho vissuto per undici anni (dal 1962 al 1973) l’avventura dell’inizio della Missione di Ngaoundaye. Di cattolici battezzati a Kounang ce n’era uno solo e qui, “Chef Canton”, i protestanti, detti “Frères Evangeliques”, avevano un buon seguito. Erano i “Frères” di Filadelfia (USA) a iniziarli alla conoscenza di Gesù.

Con l’arrivo di noi due, cappuccini genovesi, si è finalmente realizzata la richiesta, che da tempo era stata fatta, di avere una presenza della Chiesa Cattolica.

Abbiamo incominciato il nostro apostolato “in basso tono” … e a questo proposito ci sarebbe da raccontare una grande quantità di fatterelli gustosi, che noi due abbiamo fissi nell’anima e che  gusteremo rivivendoli nella luce di Dio.

Subito ci siamo divisi il lavoro. Lui, il giovanotto, il meccanico, il tutto fare è partito in quarta con un camioncino Renault 1400 e si è inerpicato sui Monti Panà, dirigendosi verso i Panà di Kounang e Ndim, i Gongué di Nzakondu, i Pondo di Letele e i Karre di Kompara. In un mese, venti e più giorni li viveva da solo tra quella gente, seguendo i numerosi catecumeni e i cristiani, con i suoi aiutanti, i catechisti.

Devo proprio ringraziare il Padre di avermi dato Cipriano come compagno tutto dono… specie nell’ arrangiare la mia Renault 1400 o la moto “Lambretta”, che gli lasciavo in qualche angolo della strada … ammaccate, con il motore spento … Forse di “uff” ne ha sospirate tante, ma sempre sottovoce e con benevolenza … Grazie, Cipriano!


Ora egli si trova a Bocaranga, dove è arrivato nel 1960, e anche lì svolge il suo lavoro di “broussard”, ma non solo come allora, seguendo catecumeni, cristiani e catechisti. Ora aiuta anche p. Valentino, per dare ai “ribelli” il “calmante” dell’amore reciproco e fare pace con la gente dei villaggi. E’ stato lo stesso p. Cipriano a inviare le notizie che seguono.

 

 …  Ecco quello che è accaduto lunedì scorso nel villaggio di Borodoul.  Dico subito che sono ritornato a casa con una gioia nel cuore  incontenibile. Il racconto di quello che abbiamo vissuto a Borodoul dirà il perché di questa gioia.

Con p. Valentino eravamo andati a contattare il capo dei ribelli e con lui avevamo concordato un incontro tra i ribelli e la gente dei due villaggi, dove gli abitanti, ormai da alcuni mesi erano scappati e vivevano lontano, a causa di uno scontro. Il Comandante dei ribelli si è dimostrato entusiasta della proposta e lunedì scorso, con due padri di Bocaranga, Roberto e Potin, siamo partiti per questa riconciliazione, con un grosso camion carico di circa 100 uomini dei due villaggi (altri avevano raggiunto Borodoul a piedi).

Insieme (la gente era ancora un po´ diffidente nonostante le mie assicurazioni che tutto sarebbe andato bene) abbiamo cominciato la riunione. Ho chiesto al comandante dei ribelli se potevamo cominciare con una preghiera e lui mi ha risposto che  l´aiuto di Dio era necessario per arrivare alla pace dei cuori. Io ho fatto una breve introduzione, spiegando lo scopo della nostra riunione: "Il ritorno ai villaggi per ricominciare a vivere da veri fratelli, per ricostruire le case e vivere nella pace e nella gioia come un tempo”. Per questo, ho detto, è necessario l´aiuto di Dio e quindi tutti insieme rivolgiamoci a Lui. p. Potin, cappuccino, ha fatto una bella preghiera per chiedere l´aiuto all´Altissimo. Perché tutti partecipassero, avevamo portato con noi un altoparlante. In questo momento ho dato la parola al comandante dei ribelli.

Il Signore ha veramente messo le parole giuste sulla bocca di questo capo. In breve egli ha detto che ci siamo riuniti per la pace, per ritornare al villaggio e iniziare una nuova vita da vivere insieme come fratelli. "E´ tempo di chiederci perdono. Viviamo negli stessi villaggi ed è da pazzi essere divisi; insieme dobbiamo dimenticare e mettere assieme le nostre forze per andare avanti.  Avete la forza della missione cattolica che vi assiste e, appena sarete insediati , vi aiuterà con i diversi organismi che lavorano nella zona a rimettervi in piedi e a costruire le scuole nei vostri due villaggi”. Le sue parole sono  state salutate con esplosioni di gioia , di battimani.

 

Dico la verità: per me questi momenti sono stati tra i più belli della mia vita missionaria.

 

Finito il discorso del capo, abbiamo proposto di fare un gesto concreto di riconciliazione. Abbiamo chiamato tutti i notabili dei due villaggi, che con il comandante e i capi dei ribelli si sono abbracciati con grida di giubilo di tutti. Anch´io mi sono profuso in abbracci verso le due parti. Ma non è finita qui. Come gesto più concreto abbiamo suggerito, secondo il costume africano, di lavarsi le mani insieme. Abbiamo messo un grande catino d´acqua in mezzo e tutti i notabili delle due parti. Hanno fatto questo lasciando tutto quello che non era stato bello tra di loro nell´acqua del catino. L´acqua del catino era veramente sporca. E´ inutile dire che anch´io mi sono accumunato nel gesto.

Durante questa cerimonia tutta la gente, i cristiani in testa, cantavano: " E ye tere na popo ti e ,e ye tere tongana aita". Vogliamoci bene, vogliamoci bene come fratelli. La gioia aveva invaso tutti, e tu sai che cosa significa qui in Africa.

Poi in processione, con il catino dell´acqua con la quale avevamo fatto il rito, hanno terminato facendone aspersione sulle case, dalla fine all´inizio del villaggio. Finita la cerimonia una fila di donne e di giovani, con i loro piccoli doni in natura, sono venuti per dire il loro grazie cantando: " E gonda p. Cyprien so lo sigigi e na ya ti nganda, ti duti nzoni na Kodro". Viva p. Cipriano, che ci ha fatti uscire dalla selva per vivere felici nel nostro villaggio.

Alla riunione hanno partecipato gli organismi umanitari internazionali; tra i responsabili c´era pure un signore americano e una signora svizzera . Anche loro hanno vissuto tutto questo come una cosa bellissima e mai vista. Lunedì, con loro e p.Aurelio di Bozoum ci incontreremo per coordinare il nostro lavoro e vedere come possiamo aiutare la gente, una volta che rientra al villaggio. Questa mattina (Giovedì 19) ho portato i catechisti dei due villaggi e questa sera gli uomini e i giovani li raggiungeranno, per togliere tutte le sterpaglie e preparare i villaggi; così le donne e i bambini tra una settimana andranno e la loro gioia sarà piena.

Preghiamo il Signore perché tutto proceda bene e tutti vivano finalmente in pace e gioia. L´unica nota grigia è stata che è mancata in questa gioia la presenza di p.Valentino, che per un colpo di malaria non ha potuto venire.

 

Dopo la pace fatta a Borodoul, le cose con i ribelli cominciano ad andare bene. Questa mattina sono andato fino a Bezere, per riportare definitivamente la famiglia del catechista al villaggio. Le cose cambiano e i contatti anche. Andando, carico della roba dei catechisti e di altri cristiani, un gruppo di ribelli “ragazzi e ragazze” mi ha salutato dicendomi: “Cip, dove vai con tutta quella roba?”. Poi tornando da Kossé,  dove sto costruendo un piccolo dispensario, alcuni ribelli mi hanno invitato a salire sulla macchina. Il loro comandante, visto a Kossé, mi ha detto che Domenica prossima andrà a pregare con i cristiani di Bezere, ritornati al villaggio, per rinforzare il gesto di riconciliazione di Borodoul e dare loro fiducia, per ricominciare la ricostruzione delle case e il lavoro dei campi.                                          

L’Ex



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco