Venerdì 3 Maggio 2024
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Dalla giungla all'università

Inserto al numero 45 di BENABE

Testimonianza

 

       Per la popolazione Kunama dell´Eritrea la parentela è matrilineare. In ogni famiglia i figli appartengono al clan della donna. Il padre si può definire putativo, passivo.  LŽeredità in ogni famiglia non spetta ai figli, ma ai nipoti, cioè ai figli della sorella dello sposo.

 

       Tra i coniugi, quando muore lo sposo, la vedova passa alla cura del fratello del defunto, già sposato oppure non ancora. Se il fratello defunto ha lasciato dei figli, quello che subentra avrà cura anche di loro e prenderà la vedova come seconda moglie. Se il marito muore senza lasciare figli, sarà compito del fratello farli nascere.

 

       Ora il papà di Antutu è morto quando lui aveva appena tre anni, lasciando tre figli: due femmine e un maschio. Uno dei due fratelli del defunto, che si chiama Galli Kolè, ha ereditato la donna e i suoi tre figli. La mamma però non ha accettato di diventare la seconda moglie e lŽuomo ha deciso di prendere con sé soltanto i figli.

 

        Un giorno lo zio ha chiesto a Antutu di andare ad abitare con i figli dellŽaltra donna, in un villaggio chiamato Ulkiscina, nei pressi di Kona (Eritrea). Il ragazzo che aveva appena 8 anni, chiesto il consenso alla madre, ha accettato la proposta ed è andato a vivere con il  nuovo padre, a circa a 30 Km. dal paese dŽorigine, Oganna.

 

       Giunto in quel villaggio, lo zio di Antutu lo ha portato a Kona (un altro villaggio a circa 3 km.), per iscriverlo alla scuola di catechismo. La sua gioia era immensa. I bambini che frequentavano questa scuola erano cinque. Per raggiungere il villaggio di Kona ci vogliono 45 minuti di cammino dentro la giungla. AllŽinizio li accompagnava uno dei familiari, poi vi si recavano da soli.

 

      Ma un giorno uno dei ragazzi, andando in cerca di miele, si è perso dentro la giungla. Gli altri quattro lo chiamavano e lui rispondeva, però invece di camminare verso di loro, andava in senso contrario. Così i ragazzi udivano la sua voce che si allontanava e ad un certo momento non la sentirono più. Allora, dopo una corsa affannosa, raggiunsero il villaggio e diedero lŽallarme.

 

      Tutti i maschi, armati di lancia e di scudo, si mossero per rintracciarlo e, dopo un´affannosa ricerca, lo trovarono nella cavità di una pianta di Baobab, che istintivamente si nascondeva dagli animali feroci, e, caricatolo sulle spalle, lo trasportarono al villaggio. Il ragazzo, esausto per la paura e per la sete, aveva perso anche i sensi. 

 

      Questo episodio provocò nella gente un´immensa angoscia, ma, ritrovato il ragazzo, tutti furono pieni di gioia e la vita del villaggio ritornò nella calma. Dopo questo fatto, per un periodo indeterminato, un uomo adulto accompagnò i ragazzi .

 

       Un giorno quellŽuomo ebbe un impegno e li lasciò andare soli. Al ritorno, proprio per ironia della sorte, li attaccò una belva. Non ricordo bene, se fosse una pantera o un leopardo; fatto sta che portò via uno dei ragazzi. Alla vista di quella scena la paura invase il loro cuore. LŽanimale, sbranato il bambino, lo trascinò dentro i cespugli e scomparve dalla loro vista. Gli altri, trafelati, raggiunsero il villaggio. Alcune persone vennero loro incontro e, vedendoli così ansimanti e spaventati, chiesero che cosa fosse successo.

 

       La risposta fu: "Un animale feroce ci ha attaccati e ha portato via Adoda (il nome del bimbo)". Uno di loro insistentemente chiese se era una belva oppure uno schiavista, perché in quel periodo cŽerano i Gebeli (schiavisti) che catturavano i Kunama per venderli. Unanimi risposero: "Abbiamo visto molto bene, non aveva lŽaspetto umano, ma di una belva".

 

       Tra quegli uomini, uno prese il corno e lo suonò, dando il segnale di allarme. In un batter dŽocchio tutti si radunarono nel luogo dove era stato dato il segnale e, armati di lancia e di asce, entrarono nella giungla. LŽinseguimento fu vano, perché lŽanimale con il bambino aveva fatto perdere le tracce. La gente tornò a casa molto innervosita e triste.

 

       Da quel giorno i genitori proibirono ai figli di recarsi alla scuola di catechismo.  Se tu fossi stato al loro posto, che cosa avresti fatto?

 

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      Antutu fu ordinato sacerdote nel 1982. Dopo 14 anni di servizio come superiore e parroco in due conventi, essendo state collaudate le sue doti e capacità di pastore, nel 1996 fu mandato a Roma per frequentare la "Facoltà di Teologia Pastorale" dellŽUniversità Lateranense. Egli studiò con grande profitto e, dopo tre anni, conseguì la Licenza "Summa Cum Laude".

 

      Un giorno, nel 1997, Antutu, uscito dallŽUniversità,  aspettava il pullman di servizio. Egli si era fermato presso l´Ateneo Antonianum, in Via Merulana. La sua borsa di studente conteneva parecchi libri. Mentre egli attendeva, andava su e giù lungo il viale Merulana. Lo videro tre poliziotti in borghese che si trovavano dallŽaltro lato della strada. La sua borsa era troppo gonfia e si insospettirono di lui. Uno di loro, attraversata la strada, venne incontro ad Antutu.

 

       Il poliziotto in borghese gli domandò: "Sai parlare l´italiano?". Antutu, supponendo che fosse un curioso qualsiasi, rispose: "No, i doŽt speak italian = No, non so parlare lŽitaliano". Il poliziotto proseguendo disse: "Do you know Duomo? = conosci il Duomo?". Antutu rispose: "Which Duomo? Duomo di Milano, di Firenze = Di quale Duomo parli? Duomo di Milano, di Firenze?" Egli rispose: "Here Vatican= Qui in Vaticano". Antutu replicò: "I doŽt know= non lo so"

 

       Nel frattempo altri due poliziotti, attraversata la strada, si avvicinarono per coglierlo in flagrante. Essi presentarono i loro documenti a conferma che erano poliziotti, e, con parole energiche, dissero alle due persone: "Fuori i documenti, fuori i dollari americani!". Il finto poliziotto consegnò i suoi documenti e tutti i dollari che aveva in tasca. Povero Antutu! Si difese come poteva. Vista la mal parata incominciò a parlare l´italiano, che qualche minuto prima aveva negato di conoscere  e disse: "Sono un sacerdote francescano cappuccino e frequento lŽUniversità Lateranense: ecco la mia tessera dŽUniversità. Non posseggo dollari americani. Se voi ne avete di superflui, vi prego di darmeli. Io sono un povero missionario, proveniente da una nazione poverissima: l´Eritrea".  

      

       A questa inaspettata risposta, i poliziotti si rammaricarono e chiesero scusa ad Antutu, dicendo: "Veda padre, oggi vi sono parecchie persone che spacciano droga, pedofili e disonesti". A questo punto Antutu sŽindignò, ma rispose con calma: "Ebbene, questo significa che voi mi considerate un pedofilo, uno che spaccia droga?". Con tanto dispiacere essi risposero: "Non è così. Noi andiamo alla ricerca di queste persone, ma oggi non abbiamo indovinato, e ci siamo accostati ad una persona sbagliata. Scusi padre".

 

       Antutu perdonò con tutto il cuore, ma quel giorno tornò a casa un po´ triste per lŽaccaduto. Durante il pranzo raccontò alla comunità quello che gli era successo. Molti si meravigliarono per l´audacia e la disinvoltura con cui egli aveva risposto alla polizia. Alcuni dicevano: "Non avrei avuto il coraggio di rispondere in quella maniera; mi sarei confuso e sarei rimasto senza parole; tu invece, Antutu, sei stato molto coraggioso. Congratulazioni! Sei davvero grande". Però alcuni latino - americani e qualche sacerdote proveniente dal Libano, che in passato avevano condiviso la stessa sorte, erano molto addolorati e dicevano: "Questo significa che noi stranieri in Italia, anche se abbiamo le carte in regola, non possiamo girare liberamente. Siamo sempre seguiti, sospettati e addirittura fermati senza ragione". Perciò si creò un clima di discussione abbastanza caldo.

 

         Antutu, che era stato il pomo della discordia, parlò così: "Ragazzi, io sono abituato alle perquisizioni, ai controlli, alle guerre, alle minacce dei patrioti che occupavano i villaggi con i combattimenti, alle catture, agli schiaffi, alle prigionie. Ho visto davanti la morte, ho sepolto gente morta in guerra, ho subito molte ingiustizie sociali. Quello che è successo a me oggi, in confronto al passato, è un gioco e mi sono divertito un mondo".

Così il clima si è mitigato e si è passati ad un´atmosfera meno tesa. 

 

 P. Antutu

 



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE, 1° Maggio 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 17. La fede

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei parlare della virtù della fede. Insieme con la carità e la speranza, questa virtù è detta “teologale”. Le virtù teologali sono tre: fede, speranza e carità. Perché sono teologali? Perché le si può vivere solo grazie al dono di Dio. Le tre virtù teologali sono i grandi doni che Dio fa alla nostra capacità morale. Senza di esse noi potremmo essere prudenti, giusti, forti e temperanti, ma non avremmo occhi che vedono anche nel buio, non avremmo un cuore che ama anche quando non è amato, non avremmo una speranza che osa contro ogni speranza.

Che cos’è la fede? Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci spiega che la fede è l’atto con cui l’essere umano si abbandona liberamente a Dio (n. 1814). In questa fede, Abramo è stato il grande padre. Quando accettò di lasciare la terra dei suoi antenati per dirigersi verso la terra che Dio gli avrebbe indicato, probabilmente sarà stato giudicato folle: perché lasciare il noto per l’ignoto, il certo per l’incerto? Ma perché fare quello? È pazzo? Ma Abramo parte, come se vedesse l’invisibile. Questo dice la Bibbia di Abramo: “Andò come se vedesse l’invisibile”. È bello questo. E sarà ancora questo invisibile a farlo salire sul monte con il figlio Isacco, l’unico figlio della promessa, che solo all’ultimo momento sarà risparmiato dal sacrificio. In questa fede, Abramo diventa padre di una lunga schiera di figli. La fede lo ha reso fecondo.

Uomo di fede sarà Mosè, il quale, accogliendo la voce di Dio anche quando più di un dubbio poteva scuoterlo, continuò a restare saldo e a fidarsi del Signore, e persino a difendere il popolo che invece tante volte mancava di fede.

Donna di fede sarà la Vergine Maria, la quale, ricevendo l’annuncio dell’Angelo, che molti avrebbero liquidato perché troppo impegnativo e rischioso, risponde: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). E con il cuore pieno di fede, con il cuore pieno di fiducia in Dio, Maria parte per una strada di cui non conosce né il tracciato né i pericoli.

La fede è la virtù che fa il cristiano. Perché essere cristiani non è anzitutto accettare una cultura, con i valori che l’accompagnano, ma essere cristiano è accogliere e custodire un legame, un legame con Dio: io e Dio; la mia persona e il volto amabile di Gesù. Questo legame è quello che ci fa cristiani.

A proposito della fede, viene in mente un episodio del Vangelo. I discepoli di Gesù stanno attraversando il lago e vengono sorpresi dalla tempesta. Pensano di cavarsela con la forza delle loro braccia, con le risorse dell’esperienza, ma la barca comincia a riempirsi d’acqua e vengono presi dal panico (cfr Mc 4,35-41). Non si rendono conto di avere la soluzione sotto gli occhi: Gesù è lì con loro sulla barca, in mezzo alla tempesta, e Gesù dorme, dice il Vangelo. Quando finalmente lo svegliano, impauriti e anche arrabbiati perché Lui li lascia morire, Gesù li rimprovera: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).

Ecco, dunque, la grande nemica della fede: non è l’intelligenza, non è la ragione, come, ahimè, qualcuno continua ossessivamente a ripetere, ma la grande nemica della fede è la paura. Per questo motivo la fede è il primo dono da accogliere nella vita cristiana: un dono che va accolto e chiesto quotidianamente, perché si rinnovi in noi. Apparentemente è un dono da poco, eppure è quello essenziale. Quando ci hanno portato al fonte battesimale, i nostri genitori, dopo aver annunciato il nome che avevano scelto per noi, si sono sentiti interrogare dal sacerdote – questo è successo nel nostro Battesimo –: «Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». E i genitori hanno risposto: «La fede, il battesimo!».

Per un genitore cristiano, consapevole della grazia che gli è stata regalata, quello è il dono da chiedere anche per suo figlio: la fede. Con essa un genitore sa che, pur in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura. Ecco, il nemico è la paura. Sa anche che, quando cesserà di avere un genitore su questa terra, continuerà ad avere un Dio Padre nei cieli, che non lo abbandonerà mai. Il nostro amore è così fragile, e solo l’amore di Dio vince la morte.

Certo, come dice l’Apostolo, la fede non è di tutti (cfr 2 Ts 3,2), e anche noi, che siamo credenti, spesso ci accorgiamo di averne solo una piccola scorta. Spesso Gesù ci può rimproverare, come fece coi suoi discepoli, di essere “uomini di poca fede”. Però è il dono più felice, l’unica virtù che ci è concesso di invidiare. Perché chi ha fede è abitato da una forza che non è solo umana; infatti, la fede “innesca” la grazia in noi e dischiude la mente al mistero di Dio. Come disse una volta Gesù: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Perciò anche noi, come i discepoli, gli ripetiamo: Signore, aumenta la nostra fede! (cfr Lc 17,5) È una bella preghiera! La diciamo tutti insieme? “Signore, aumenta la nostra fede”. La diciamo insieme: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede”. Troppo debole, un po’ più forte: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede!”. Grazie.

Papa Francesco