Venerd́ 19 Aprile 2024
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Letture e meditazioni


INVERNO DELL´ANIMA

(nei giorni della pandemia)

Sai, forse è questo l’inverno,

non i capricci del vento

o il silenzio antico della neve,

ma quell’ombra fredda posata sul cuore,

inverno dell’anima.

E ci scopriamo fragili e affranti,

a cercare lontano

un luogo ignoto dove il dolore svanisca

e il cielo non pianga più le sue stelle.

Siamo nella stessa onda

a implorare la pietà del mare

e ci sgomenta il nulla oltre l’orizzonte,

i nostri passi che non lasciano più impronta.

Litanie di giorni immobili

nel tempo infinito del dolore.

E pesa la solitudine del viaggio,

l’affanno di mani a cercare altre mani

e occhi a implorare la carezza di uno sguardo.

Inquieta il tocco invisibile della morte,

un inganno di stelle al tramonto

e l’oblio della notte sulla terra desolata.

Un pianto di foglie arrese all’autunno

e raccontarsi gli abbracci che non puoi

mentre il cuore affonda in un mare di silenzio.

Forse anche le pietre gridano il dolore

all’ombra della croce

e, nelle strade deserte di passi,

il vento solleva foglie nascoste

dietro angoli di solitudine.

Siamo diventati isole lontane senza approdi,

pallido il mare e le sue bianche schiume

tristi corone di lacrime

al gelido abbraccio della morte.

Eppure oltre le case mute,

il cielo s’illumina di sereno

mentre la terra incerta attende

che l’onda scura in esilio si ritiri.

I GIORNI DI IERI 

Aspro sciabordio di onde,

nella gelida oscurità piange anche il mare

e i suoi gemiti amari schiaffeggiano il cuore.

Forse rammenta i giorni di ieri,

le chiare stelle sopra l’orizzonte

e i gabbiani ebbri di vento

a disegnare parole ai confini della notte.

Sfilano mesti i cortei per la città deserta

e strazia il dolore che resta

dentro lacrime di silenzio.

Grave questa cupola di cielo triste e nera

e la terra pare un grembo freddo senza più vita.

Illusione che l’arida morte

riscatti l’oltraggio ai vinti

con tenerezza di affetti e pietà di sguardi.

Le spente stagioni, la quiete immobile del silenzio

e le infinite litanie di onde

nel mare dell’eterno.

Desolata attende la terra quel che resta

di stremate, esauste membra.

Gente fiera e antica

piegata da oscuro morbo,

ombre alle ombre bagnate di pioggia

nella  grigia nebbia della sera.

Breve il tempo dell’aurora,

notte gravida di dolore incombe

e solo devota promessa di memoria

asciuga le lacrime

sul pallido volto degli assenti.

RITA

 

 

Ci sono tre silenzi da intendere e interpretare,

a cui dare un significato :

il silenzio di Gesù, quello di Dio e il mio.

 

IL SILENZIO DI GESU’

 

         Quando si accenna al silenzio di Gesù, subito il pensiero corre al silenzio della passione. E infatti è qui che il silenzio ha raggiunto il punto più alto della sua forza espressiva.

 

         Ma i Vangeli non parlano soltanto del silenzio della passione. C’è anche il silenzio dell’uomo che resta ammutolito di fronte a Gesù, o perché la sua parola lo riempie di meraviglia o perché la sua verità lo infastidisce. C’è il silenzio di Gesù di fronte alle domande pretestuose o inutili di chi finge di interrogarlo. E c’è il silenzio che Gesù impone a chi vorrebbe parlare di lui prima di aver intravisto la novità, che è la croce. Non basta il coraggio dell’annuncio a fare un vero discepolo. Occorre anche lo spazio del silenzio necessario per cogliere la novità di Gesù. Stupisce il silenzio di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro (Gv 11). In verità è lo specchio del silenzio di Dio, un silenzio che lo stesso Gesù incontra nel Getsemani e nella sua domanda sulla croce.

 

         Il racconto del Getsemani è apparentemente un dialogo. Gesù parla cinque volte, sempre rivolgendosi a qualcuno: ai discepoli e al Padre. Ma nessuno gli risponde, quasi fosse un monologo.

 

         L’esperienza del silenzio di Dio non dice la debolezza della fede, ma la profondità e l’umanità della fede e porta al centro dell’uomo e della storia, là dove Dio e l’uomo sembrano contraddirsi, dove Dio sembra assente o distratto, dove la morte sembra avere l’ultima parola sulla vita e la menzogna sulla  verità. Ma se compreso nel mistero di Cristo, allora il silenzio di Dio appare nella sua realtà, cioè come un diverso modo di parlare. Infatti nel Getsemani il Padre ha parlato: non con il miracolo che libera dalla morte, ma con il coraggio di affrontare la morte attraversandola. Se all’inizio Gesù è angosciato e impietrito, alla fine  -  dopo aver pregato  -   egli è tornato sereno e pronto: “Alzatevi, andiamo! Colui che mi tradisce è vicino” (Mc 14,42).

 

         Il momento più espressivo del silenzio di Gesù è la passione. Qui il silenzio è veramente più denso delle parole. Nella passione Gesù parla poche volte, mai per difendersi, ma soltanto per spiegare la sua identità. Sollecitato dal sommo sacerdote a rispondere alle molte accuse, Gesù tace. E’ il silenzio di chi, nell’umiliazione, conserva intatta la sua dignità. La verità tace di fronte alla violenza, non perché non abbia nulla da dire, ma perché ha già detto tutto.

 

         Nei racconti della passione è sempre presente la figura del giusto sofferente, che Gesù rivive e ingigantisce. E’ la figura senza tempo, presente in ogni momento della storia e in ogni luogo. Gesù ne è la gigantografia. E’ la figura dell’uomo che annuncia la verità e proprio per questo è colpito.

 

         Nel racconto del processo di Gesù davanti a Pilato sono in molti a parlare: i sacerdoti, Pilato, la folla, i soldati. Ma Gesù non parla.

 

         Nei racconti di Marco (15,24-39) e Matteo (27,32-50) attorno al crocifisso sono molti a parlare: i passanti, i sacerdoti, le guardie, i due ladroni. Tutti parlano o di Gesù o contro Gesù, ma lui tace.

 

         Rivolge una domanda al suo Dio, che cade nel silenzio. Muore con un grido senza parole: “Gesù, dato un forte grido, spirò”.

 

         Il Padre parlerà, ma dopo, con la resurrezione. La croce è il momento in cui tocca al Figlio manifestare tutta la sua fiducia nel Padre. Tocca al Crocifisso rivelare fino a che punto giunge l’amore di Dio.

 

         Ma c’è anche il silenzio di Maria che dovrebbe essere lo specchio del silenzio della Chiesa.  Fra i molti silenzi di Maria il più significativo è quello ai piedi della Croce. Gesù le rivolge la parola: “Donna, ecco tuo figlio” (Gv19,26). Ma la madre non risponde. La sua risposta è il silenzio che acconsente, il silenzio che esprime un “sì” detto con la vita.

Bruno Maggioni

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco