Luned́ 29 Aprile 2024
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I Cappuccini


Cardinale Massaja, una vita di carità

Esempio di sollecitudine pastorale e carica missionaria in patria e in Africa

 

Sandali e bastone sono stati gli strumenti pastorali dell'apostolato missionario del Vescovo cappuccino fra Guglielmo Massaja, nato a Piova' di Asti nel 1809 e morto a Napoli nel 1889 come Cardinale di Santa Romana Chiesa, e ora anche Servo di Dio.

 

Quando ricevette la porpora cardinalizia, cinque anni prima della morte, si sfogò con un suo amico Vescovo così: "La nomina avuta dal Santo Padre è per me l'ultimo tracollo che mi porterà ben presto al sepolcro, e mi costerà forse qualche secolo di purgatorio, se pure con la grazia di Dio e l'intercessione della sua gran Madre Maria, mi riuscirà di salvare il capitale dell'anima mia dal discendere più basso".

 

Due sono le ragioni che mi hanno spinto a farne memoria: la ricorrenza dell'Anno Sacerdotale che ha raggiunto la sua conclusione. Il Massaja è una figura di religioso, di sacerdote, di missionario, di Vescovo, di Cardinale che ha qualcosa da dire anche oggi per la sua sollecitudine pastorale e carica missionaria, per la sua vita ridotta all'essenziale della povertà religiosa, per la sua franchezza nell'esprimere le sue considerazioni e valutazioni personali, proprie di uno che viveva sul campo e sentiva le cose sulla sua pelle circa orientamenti e provvedimenti che riceva da chi di dovere; non taceva mai la verità dinanzi ai Superiori pur nella chiara determinazione di voler "morire mille volte per la fede e l'obbedienza alla Chiesa" e confessava: "Quando veggo qualche cosa, sento il bisogno di versarlo a chi dirige l'opera di Dio".

 

L'altra ragione è che per quattro volte è passato da Genova e vi ha anche sostato, pur se solo per qualche giorno; inoltre ha avuto a che fare con un valoroso e intraprendente sacerdote genovese, apostolo del riscatto delle morette, Don Luigi Sturla. Il Massaja, senza badare alle etichette e alle cose per niente benevole che si dicevano sul conto di questo prete come tipo sospetto per le sue idee, ma guardando alla sostanza, se lo era fatto suo valido e prezioso collaboratore.

 

Nel maggio del 1864 da Roma andò a Marsiglia per la consacrazione di Notre Dame de la Garde!

 

Le poche cose che dico, certamente non tratteggiano in pieno questo grande uomo – ci vorrebbero molte pagine! – ma ritengo e mi auguro che possano stuzzicare la curiosità e invogliare a leggere la sua biografia per farsi un'idea della statura di questo sant'uomo e infaticabile apostolo del Vangelo.

 

Egli addirittura riteneva che la vita religiosa sarebbe risorta con "l'abbandonare i conventi inutili, dove non si ottiene altro che guastare i religiosi", per aprirsi alla gente e servirla sul piano della fede. Lui, in un momento di smarrimento per l'incomprensione, era giunto a scrivere: "Non posso far di più che ammazzarmi (dal lavoro) per la causa delle anime".

"In questa nostra patria educati al fasto e alle delizie, non sappiamo vestire la semplicità e la povertà degli Etiopi, per renderli ricchi".

 

Il genovese Card. Alimonda, Arcivescovo di Torino, incontrando a Frascati il Card. Massaja, già ritornato in Italia, ne rimase ammirato per il suo ancora rigido tenore di vita e la sua estrema povertà anche quando avrebbe potuto concedersi qualche transazione, privilegio e riguardo per la sua condizione e posizione.

 

Ed ora vengo a quello da cui sono partito: il suo corredo pastorale.

I sandali da frate cappuccino, che lui stesso si faceva in missione subito da Vescovo e che ha portato anche da Cardinale, hanno avvolto e protetto i suoi piedi nudi e gli hanno permesso di percorrere migliaia di Km per raggiungere in 6 anni la sede del Vicariato Apostolico dei Galla nell'alta Etiopia.

 

Il bastone che lui stesso si era costruito con un ramo di cedro del Libano dove aveva infilato come manico la radica dell'olivo del Getsemani nella prima tappa del suo interminabile viaggio verso la sua residenza episcopale.

 

Al suo rientro in Italia dopo 35 anni di dura missione, quando si era presentato al Papa Leone XIII, per motivi di protocollo curiale, gli era stato fatto lasciare in anticamera.

Il bastone andava bene nella terra fangosa, nel guado dei fiumi tra animali pericolosi, nelle boscaglie e nelle foreste ma disdiceva nelle stanze vaticane.

Il Papa umanista ma di cuore evangelico, venutolo a sapere, dopo aver ascoltato per più di mezz'ora il Vescovo Massaja ed essersene addirittura "invaghito" per la sua mirabolante e drammatica avventura missionaria, lo congedava proponendogli di volerlo risentire per l'ora del suo passeggio pomeridiano in giardino e gli accordava la facoltà di portare con sé il suo fatidico e famoso bastone.

 

In realtà quel bastone di puro legno, tanto e ancor più prezioso del pastorale di metallo della sua Ordinazione Episcopale solenne, ricevuta ad appena 37 anni di età quale primo Vicario Apostolico dei Galla, nella Chiesa di Carlo al Corso in Roma, è stato il compagno di vita e di viaggio e l'appoggio di tutti gli anni e i giorni del suo incessante peregrinare missionario per portare a tutti e in tutti i luoghi e ambienti la buona notizia del Vangelo, costituire comunità di cristiani e ordinare e lasciarvi dei preti indigeni come pastori.

 

Sandali e bastone sono due segni, umanamente, socialmente ed ecclesiasticamente poveri e dimessi, che caratterizzano la figura austera del Massaja, quale testimone dell'uomo evangelico, la cui dignità non ha sacrificato e condizionato il suo essere tutto a tutti senza volersi distinguere se non per servire di più e far servire tutto quello che era, sapeva, aveva e poteva.

 

Il suo dopo missione lo vedeva come il tempo per prepararsi a morire e a rendere conto del suo operato. Il suo intendimento e proposito era questo: "Io metterò l'abito cappuccino e passerò il resto della mia vita nel più dimenticato convento dell'Ordine, disposto anche a fare la questua".

 

Nelle fotografie è vero che appare anche rivestito degli abiti episcopali e cardinalizi ma nel monumento, si direbbe ufficiale, che lo raffigura, si vede il Card. Massaja precisamente con il saio da frate cappuccino con sopra una semplice croce pettorale, con i sandali ai piedi bene evidenziati e con l'inseparabile bastone di legno liscio in mano.

 

Dando uno sguardo rapidissimo ai suoi primi 10 anni di vita religiosa cappuccina e presbiterale, trascorsi in Piemonte, si poteva dire che il suo destino si sarebbe svolto nel solco dello studio, della cultura teologica e dell'insegnamento filosofico. Ma a 37 anni, improvvisamente come un fulmine a ciel sereno, avviene la grande svolta. Dal Procuratore Generale e in seguito anche Ministro Generale del suo Ordine Cappuccino, già sua guida formativa negli anni dello studentato, fra Guglielmo è chiamato a raggiungere immediatamente Roma da Torino dove prestava servizio di Cappellano presso l'Ospedale Mauriziano. Il morente Papa Gregorio XVI aveva deciso di provvedere direttamente alla prospettata possibilità e richiesta di aprire una missione evangelizzatrice nell'alta Etiopia e ne dava l'incarico al P. Venanzio da Torino perché scegliesse tra i Frati del suo Ordine Cappuccino le persone adatte tra cui uno da ordinare subito Vescovo e spedirlo in missione senza attendere alcun tempo per non perdere il treno dell'occasione di una nuova presenza missionaria della Chiesa Cattolica in ambienti dominati da altre Confessioni e Chiese non cattoliche.

 

Chi meglio del Padre Massaja che, a suo tempo, aveva manifestato la sua disponibilità ad andare missionario ad gentes e si era votato ad essere missionario a vita?

 

La chiamata della Chiesa per lui era e fu la risposta sicura della bontà del suo anelito missionario; dentro di sé la grazia dell'episcopato che avrebbe ricevuto, anche se aveva sentito fortemente la spinta a rinunciarvi, non gli montava la testa e non gli faceva assumere posizioni di superiorità e di distanza; tuttavia le si era arreso per amore di quelle anime di cui aveva sentito essere aperte al dono del Vangelo. Il suo cuore sacerdotale era infiammato e incalzato dalla carità pastorale e si vedeva sospinto dall'esperienza di Abramo: "Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela…verso la terra che io ti indicherò…e ti benedirò… e possa tu essere una benedizione" (Gn 12,1.2).

 

E' partito e non si è più fermato finché le sue forze lo hanno sostenuto. Il suo camminare con sandali e bastone è durato 35 anni con viaggi ora di 500, ora di 300 Km aerei e via discorrendo. Se qualche volta si è fermato, è perché glielo hanno impedito sia persone che volevano la sua morte, sia circostanze ambientali e climatiche che rendevano impraticabili le strade, oppure soprattutto per far conoscere il Vangelo, battezzare, ordinare preti indigeni e vescovi.

 

Durante questa parabola, ha dovuto fare di tutto, pur di aiutare la sua gente: il sarto, il ciabattino, l'infermiere, il chirurgo, il guaritore efficace del vaiolo col vaccino confezionato dalle sue stesse mani (si calcola che abbia vaccinato 40.000 persone!); l'esploratore, lo studioso geografico, l'inventore dell'alfabeto scritto della lingua amarica e il compilatore della relativa grammatica; ha dovuto industriarsi a fare la carta su cui scrivere i suoi appunti dei più svariati generi.

 

Ha dovuto sostenere difficoltà e insidie rocambolesche a ritmo incalzante che avrebbero stroncato chiunque; affrontare pericoli di ogni genere per terra e per acqua, non escluso quello dell'impatto con animali feroci e velenosi; per tanto tempo ha pesato su di lui la scomunica e la condanna a morte da parte dell'abuna Salama II, un vescovo copto che voleva eliminare ogni seme e presenza della religione e Chiesa cattolica. Per dare compimento a questo malsano progetto omicida, lo stessa abuna Salama aveva indetto e stava conducendo nel suo territorio una crociata con il supporto di una taglia per poter catturare il Vescovo cappuccino cattolico e eliminarlo; questo Vescovo, nonostante tutte queste trappole e angherie, non si è lasciato prendere dalla paura e non si è dato per vinto, ma ha sostenuto un girovagare martoriante per sfuggire a ripetuti complotti mortali. Pur essendo Vescovo, ha dovuto anche nascondersi sotto un cognome diverso e una identità solo civile: farsi passare per il dottor Giorgio Bartorelli (nome del padrino di Battesimo e cognome modificato della mamma).

 

Il suo episcopio, per ben quasi sei anni prima di arrivare alla sua destinazione residenziale, spesso e volentieri è stato ora una tenda, ora una capanna, ora una grotta, ora una stamberga, ora la terra battuta.

 

Anche la Ordinazione episcopale di colui che oggi è S. Giustino De Jacobis, "un religioso lazzarista di sconfinata umiltà e già in vita in fama di santità presso le varie popolazioni", avvenne di notte in un ambiente di quattro metri per tre su un altare fatto di tre casse messe una sopra l'altra.

 

Al Massaja si deve praticamente anche la fondazione della Città di Addis Abeba, partendo dall'insediamento di una colonia agricola che in breve tempo ebbe una celerissima espansione e bellezza, tanto da essere chiamata "Nuovo Fiore" ossia Addis Abeba appunto!

 

Nei suoi 35 anni non sono mancate laceranti sofferenze morali: l'abbandono, l'isolamento, la dimenticanza, il silenzio, la bocciatura di sussidi pastorali elaborati da lui stesso, l'incomprensione dei suoi criteri missionari, ma neppure il suo tenace e schietto amore alla Chiesa nonostante tutto.

 

Si potrebbe dire che ha vissuto il martirio della carità pastorale nell'esercizio del dono della fortezza, "un martirio non di sangue, come scrisse all'allora Mons. Comboni, ora San Daniele, ma di cuore e di tribolazione,… di paziente fatica".

 

La memoria di tutte queste peripezie, per desiderio felice, provvidenziale e forte del Papa Leone XIII, fu consegnata a circa 4.000 pagine e inizialmente pubblicate in 12 volumi.

 

Il Papa aveva intuito che "l'avventura così colossale" del Massaja non doveva e non poteva restare ignota e raccontata solo verbalmente; per questo gli aveva  assegnato un'abitazione a Frascati dove, mentre si riposava e si curava, poteva e doveva attendere alla stesura, fino a scrivere anche per 15 ore al giorno, dei suoi famosi, emblematici e quasi leggendari: "I miei 35 anni di missione".

 

Il compimento della lunga parabola esistenziale e missionaria del Massaja avviene all'insegna di questo suo pensiero: "Ormai non penso più che a un cosa sola: a stare nella grazia di Dio, per il giorno della chiamata" che lo raggiunge a Napoli dove si era recato perché l'aria che vi respirava gli sembrava che lo ringiovanisse nella mente e nelle forze. Così "La cara morte era venuta a metter fine a tutti i bisogni, eccetto quello di amare Dio".

 

La Chiesa può dirsi fiera e contenta di aver generato e formato un cristiano, un religioso prete, vescovo e cardinale, un missionario, un servo di Dio come il cappuccino fra Guglielmo Massaja.

 

Oliveri Mons. Guido



 

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Visita del Santo Padre Francesco a VENEZIA

Piazza San Marco (Venezia)
V Domenica del Tempo di Pasqua, 28 aprile 2024

Gesù è la vite, noi siamo i tralci. E Dio, il Padre misericordioso e buono, come un agricoltore paziente ci lavora con premura perché la nostra vita sia ricolma di frutti. Per questo, Gesù ci raccomanda di custodire il dono inestimabile che è il legame con Lui, da cui dipende la nostra vita e la nostra fecondità. Egli ripete con insistenza: «Rimanete in me e io in voi. […] Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto» (Gv 15,4). Solo chi rimane unito a Gesù porta frutto. Soffermiamoci su questo.

Gesù sta per concludere la sua missione terrena. Nell’Ultima Cena con quelli che saranno i suoi apostoli, Egli consegna loro, insieme con l’Eucaristia, alcune parole-chiave. Una di esse è proprio questa: «rimanete», mantenete vivo il legame con me, restate uniti a me come i tralci alla vite. Usando questa immagine, Gesù riprende una metafora biblica che il popolo conosceva bene e che incontrava anche nella preghiera, come nel salmo che dice: «Dio degli eserciti, ritorna! / Guarda dal cielo e vedi / e visita questa vigna» (Sal 80,15). Israele è la vigna che il Signore ha piantato e di cui si è preso cura. E quando il popolo non porta i frutti d’amore che il Signore si attende, il profeta Isaia formula un atto di accusa utilizzando proprio la parabola di un agricoltore che ha dissodato la sua vigna, l’ha ripulita dai sassi, vi ha piantato viti pregiate aspettandosi che producesse vino buono, ma essa, invece, dà soltanto acini acerbi. E il profeta conclude: «Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti / è la casa d’Israele; / gli abitanti di Giuda / sono la sua piantagione preferita. / Egli si aspettava giustizia / ed ecco spargimento di sangue, / attendeva rettitudine / ed ecco grida di oppressi» (Is 5,7). Gesù stesso, riprendendo Isaia, racconta la drammatica parabola dei vignaioli omicidi, mettendo in risalto il contrasto tra il lavoro paziente di Dio e il rifiuto del suo popolo (cfr Mt 21,33-44).

Dunque, la metafora della vite, mentre esprime la cura amorevole di Dio per noi, d’altra parte ci mette in guardia, perché, se spezziamo questo legame con il Signore, non possiamo generare frutti di vita buona e noi stessi rischiamo di diventare rami secchi. È brutto, questo, diventare rami secchi, quei rami che vengono gettati via.

Fratelli e sorelle, sullo sfondo dell’immagine usata da Gesù, penso anche alla lunga storia che lega Venezia al lavoro delle vigne e alla produzione del vino, alla cura di tanti viticoltori e ai numerosi vigneti sorti nelle isole della Laguna e nei giardini tra le calli della città, e a quelli che impegnavano i monaci a produrre vino per le loro comunità. Dentro questa memoria, non è difficile cogliere il messaggio della parabola della vite e dei tralci: la fede in Gesù, il legame con Lui non imprigiona la nostra libertà ma, al contrario, ci apre ad accogliere la linfa dell’amore di Dio, il quale moltiplica la nostra gioia, si prende cura di noi con la premura di un bravo vignaiolo e fa nascere germogli anche quando il terreno della nostra vita diventa arido. E tante volte il nostro cuore diventa arido.

Ma la metafora uscita dal cuore di Gesù può essere letta anche pensando a questa città costruita sulle acque, e riconosciuta per questa sua unicità come uno dei luoghi più suggestivi al mondo. Venezia è un tutt’uno con le acque su cui sorge, e senza la cura e la salvaguardia di questo scenario naturale potrebbe perfino cessare di esistere. Così è pure la nostra vita: anche noi, immersi da sempre nelle sorgenti dell’amore di Dio, siamo stati rigenerati nel Battesimo, siamo rinati a vita nuova dall’acqua e dallo Spirito Santo e inseriti in Cristo come i tralci nella vite. In noi scorre la linfa di questo amore, senza il quale diventiamo rami secchi, che non portano frutto. Il Beato Giovanni Paolo I, quando era Patriarca di questa città, disse una volta che Gesù «è venuto a portare agli uomini la vita eterna […]». E continuava: «Quella vita sta in lui e da lui passa ai suoi discepoli, come la linfa sale dal tronco ai tralci della vite. Essa è un’acqua fresca, che egli dà, una fonte sempre zampillante» (A. Luciani, Venezia 1975-1976. Opera Omnia. Discorsi, scritti, articoli, vol. VII, Padova 2011, 158).

Fratelli e sorelle, questo è ciò che conta: rimanere nel Signore, dimorare in Lui. Pensiamo a questo, un minuto: rimanere nel Signore, dimorare in Lui. E questo verbo – rimanere – non va interpretato come qualcosa di statico, come se volesse dirci di stare fermi, parcheggiati nella passività; in realtà, ci invita a metterci in movimento, perché rimanere nel Signore significa crescere; sempre rimanere nel Signore significa crescere, crescere nella relazione con Lui, dialogare con Lui, accogliere la sua Parola, seguirlo sulla strada del Regno di Dio. Perciò si tratta di metterci in cammino dietro a Lui: rimanere nel Signore e camminare, metterci in cammino dietro a Lui, lasciarci provocare dal suo Vangelo e diventare testimoni del suo amore.

Per questo Gesù dice che chi rimane in Lui porta frutto. E non si tratta di un frutto qualsiasi! Il frutto dei tralci in cui scorre la linfa è l’uva, e dall’uva proviene il vino, che è un segno messianico per eccellenza. Gesù, infatti, il Messia inviato dal Padre, porta il vino dell’amore di Dio nel cuore dell’uomo e lo riempie di gioia, lo riempie di speranza.

Cari fratelli e sorelle, questo è il frutto che siamo chiamati a portare nella nostra vita, nelle nostre relazioni, nei luoghi che frequentiamo ogni giorno, nella nostra società, nel nostro lavoro. Se oggi guardiamo a questa città di Venezia, ammiriamo la sua incantevole bellezza, ma siamo anche preoccupati per le tante problematiche che la minacciano: i cambiamenti climatici, che hanno un impatto sulle acque della Laguna e sul territorio; la fragilità delle costruzioni, dei beni culturali, ma anche quella delle persone; la difficoltà di creare un ambiente che sia a misura d’uomo attraverso un’adeguata gestione del turismo; e inoltre tutto ciò che queste realtà rischiano di generare in termini di relazioni sociali sfilacciate, di individualismo e solitudine.

E noi cristiani, che siamo tralci uniti alla vite, vigna del Dio che ha cura dell’umanità e ha creato il mondo come un giardino perché noi possiamo fiorirvi e farlo fiorire, noi cristiani, come rispondiamo? Restando uniti a Cristo potremo portare i frutti del Vangelo dentro la realtà che abitiamo: frutti di giustizia e di pace, frutti di solidarietà e di cura vicendevole; scelte di attenzione per la salvaguardia del patrimonio ambientale ma anche di quello umano: non dimentichiamo il patrimonio umano, la grande umanità nostra, quella che ha preso Dio per camminare con noi; abbiamo bisogno che le nostre comunità cristiane, i nostri quartieri, le città, diventino luoghi ospitali, accoglienti, inclusivi. E Venezia, che da sempre è luogo di incontro e di scambio culturale, è chiamata ad essere segno di bellezza accessibile a tutti, a partire dagli ultimi, segno di fraternità e di cura per la nostra casa comune. Venezia, terra che fa fratelli. Grazie.

Papa Francesco