Venerd́ 26 Dicembre 2025


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I Cappuccini


Cardinale Massaja, una vita di carità

Esempio di sollecitudine pastorale e carica missionaria in patria e in Africa

 

Sandali e bastone sono stati gli strumenti pastorali dell'apostolato missionario del Vescovo cappuccino fra Guglielmo Massaja, nato a Piova' di Asti nel 1809 e morto a Napoli nel 1889 come Cardinale di Santa Romana Chiesa, e ora anche Servo di Dio.

 

Quando ricevette la porpora cardinalizia, cinque anni prima della morte, si sfogò con un suo amico Vescovo così: "La nomina avuta dal Santo Padre è per me l'ultimo tracollo che mi porterà ben presto al sepolcro, e mi costerà forse qualche secolo di purgatorio, se pure con la grazia di Dio e l'intercessione della sua gran Madre Maria, mi riuscirà di salvare il capitale dell'anima mia dal discendere più basso".

 

Due sono le ragioni che mi hanno spinto a farne memoria: la ricorrenza dell'Anno Sacerdotale che ha raggiunto la sua conclusione. Il Massaja è una figura di religioso, di sacerdote, di missionario, di Vescovo, di Cardinale che ha qualcosa da dire anche oggi per la sua sollecitudine pastorale e carica missionaria, per la sua vita ridotta all'essenziale della povertà religiosa, per la sua franchezza nell'esprimere le sue considerazioni e valutazioni personali, proprie di uno che viveva sul campo e sentiva le cose sulla sua pelle circa orientamenti e provvedimenti che riceva da chi di dovere; non taceva mai la verità dinanzi ai Superiori pur nella chiara determinazione di voler "morire mille volte per la fede e l'obbedienza alla Chiesa" e confessava: "Quando veggo qualche cosa, sento il bisogno di versarlo a chi dirige l'opera di Dio".

 

L'altra ragione è che per quattro volte è passato da Genova e vi ha anche sostato, pur se solo per qualche giorno; inoltre ha avuto a che fare con un valoroso e intraprendente sacerdote genovese, apostolo del riscatto delle morette, Don Luigi Sturla. Il Massaja, senza badare alle etichette e alle cose per niente benevole che si dicevano sul conto di questo prete come tipo sospetto per le sue idee, ma guardando alla sostanza, se lo era fatto suo valido e prezioso collaboratore.

 

Nel maggio del 1864 da Roma andò a Marsiglia per la consacrazione di Notre Dame de la Garde!

 

Le poche cose che dico, certamente non tratteggiano in pieno questo grande uomo – ci vorrebbero molte pagine! – ma ritengo e mi auguro che possano stuzzicare la curiosità e invogliare a leggere la sua biografia per farsi un'idea della statura di questo sant'uomo e infaticabile apostolo del Vangelo.

 

Egli addirittura riteneva che la vita religiosa sarebbe risorta con "l'abbandonare i conventi inutili, dove non si ottiene altro che guastare i religiosi", per aprirsi alla gente e servirla sul piano della fede. Lui, in un momento di smarrimento per l'incomprensione, era giunto a scrivere: "Non posso far di più che ammazzarmi (dal lavoro) per la causa delle anime".

"In questa nostra patria educati al fasto e alle delizie, non sappiamo vestire la semplicità e la povertà degli Etiopi, per renderli ricchi".

 

Il genovese Card. Alimonda, Arcivescovo di Torino, incontrando a Frascati il Card. Massaja, già ritornato in Italia, ne rimase ammirato per il suo ancora rigido tenore di vita e la sua estrema povertà anche quando avrebbe potuto concedersi qualche transazione, privilegio e riguardo per la sua condizione e posizione.

 

Ed ora vengo a quello da cui sono partito: il suo corredo pastorale.

I sandali da frate cappuccino, che lui stesso si faceva in missione subito da Vescovo e che ha portato anche da Cardinale, hanno avvolto e protetto i suoi piedi nudi e gli hanno permesso di percorrere migliaia di Km per raggiungere in 6 anni la sede del Vicariato Apostolico dei Galla nell'alta Etiopia.

 

Il bastone che lui stesso si era costruito con un ramo di cedro del Libano dove aveva infilato come manico la radica dell'olivo del Getsemani nella prima tappa del suo interminabile viaggio verso la sua residenza episcopale.

 

Al suo rientro in Italia dopo 35 anni di dura missione, quando si era presentato al Papa Leone XIII, per motivi di protocollo curiale, gli era stato fatto lasciare in anticamera.

Il bastone andava bene nella terra fangosa, nel guado dei fiumi tra animali pericolosi, nelle boscaglie e nelle foreste ma disdiceva nelle stanze vaticane.

Il Papa umanista ma di cuore evangelico, venutolo a sapere, dopo aver ascoltato per più di mezz'ora il Vescovo Massaja ed essersene addirittura "invaghito" per la sua mirabolante e drammatica avventura missionaria, lo congedava proponendogli di volerlo risentire per l'ora del suo passeggio pomeridiano in giardino e gli accordava la facoltà di portare con sé il suo fatidico e famoso bastone.

 

In realtà quel bastone di puro legno, tanto e ancor più prezioso del pastorale di metallo della sua Ordinazione Episcopale solenne, ricevuta ad appena 37 anni di età quale primo Vicario Apostolico dei Galla, nella Chiesa di Carlo al Corso in Roma, è stato il compagno di vita e di viaggio e l'appoggio di tutti gli anni e i giorni del suo incessante peregrinare missionario per portare a tutti e in tutti i luoghi e ambienti la buona notizia del Vangelo, costituire comunità di cristiani e ordinare e lasciarvi dei preti indigeni come pastori.

 

Sandali e bastone sono due segni, umanamente, socialmente ed ecclesiasticamente poveri e dimessi, che caratterizzano la figura austera del Massaja, quale testimone dell'uomo evangelico, la cui dignità non ha sacrificato e condizionato il suo essere tutto a tutti senza volersi distinguere se non per servire di più e far servire tutto quello che era, sapeva, aveva e poteva.

 

Il suo dopo missione lo vedeva come il tempo per prepararsi a morire e a rendere conto del suo operato. Il suo intendimento e proposito era questo: "Io metterò l'abito cappuccino e passerò il resto della mia vita nel più dimenticato convento dell'Ordine, disposto anche a fare la questua".

 

Nelle fotografie è vero che appare anche rivestito degli abiti episcopali e cardinalizi ma nel monumento, si direbbe ufficiale, che lo raffigura, si vede il Card. Massaja precisamente con il saio da frate cappuccino con sopra una semplice croce pettorale, con i sandali ai piedi bene evidenziati e con l'inseparabile bastone di legno liscio in mano.

 

Dando uno sguardo rapidissimo ai suoi primi 10 anni di vita religiosa cappuccina e presbiterale, trascorsi in Piemonte, si poteva dire che il suo destino si sarebbe svolto nel solco dello studio, della cultura teologica e dell'insegnamento filosofico. Ma a 37 anni, improvvisamente come un fulmine a ciel sereno, avviene la grande svolta. Dal Procuratore Generale e in seguito anche Ministro Generale del suo Ordine Cappuccino, già sua guida formativa negli anni dello studentato, fra Guglielmo è chiamato a raggiungere immediatamente Roma da Torino dove prestava servizio di Cappellano presso l'Ospedale Mauriziano. Il morente Papa Gregorio XVI aveva deciso di provvedere direttamente alla prospettata possibilità e richiesta di aprire una missione evangelizzatrice nell'alta Etiopia e ne dava l'incarico al P. Venanzio da Torino perché scegliesse tra i Frati del suo Ordine Cappuccino le persone adatte tra cui uno da ordinare subito Vescovo e spedirlo in missione senza attendere alcun tempo per non perdere il treno dell'occasione di una nuova presenza missionaria della Chiesa Cattolica in ambienti dominati da altre Confessioni e Chiese non cattoliche.

 

Chi meglio del Padre Massaja che, a suo tempo, aveva manifestato la sua disponibilità ad andare missionario ad gentes e si era votato ad essere missionario a vita?

 

La chiamata della Chiesa per lui era e fu la risposta sicura della bontà del suo anelito missionario; dentro di sé la grazia dell'episcopato che avrebbe ricevuto, anche se aveva sentito fortemente la spinta a rinunciarvi, non gli montava la testa e non gli faceva assumere posizioni di superiorità e di distanza; tuttavia le si era arreso per amore di quelle anime di cui aveva sentito essere aperte al dono del Vangelo. Il suo cuore sacerdotale era infiammato e incalzato dalla carità pastorale e si vedeva sospinto dall'esperienza di Abramo: "Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela…verso la terra che io ti indicherò…e ti benedirò… e possa tu essere una benedizione" (Gn 12,1.2).

 

E' partito e non si è più fermato finché le sue forze lo hanno sostenuto. Il suo camminare con sandali e bastone è durato 35 anni con viaggi ora di 500, ora di 300 Km aerei e via discorrendo. Se qualche volta si è fermato, è perché glielo hanno impedito sia persone che volevano la sua morte, sia circostanze ambientali e climatiche che rendevano impraticabili le strade, oppure soprattutto per far conoscere il Vangelo, battezzare, ordinare preti indigeni e vescovi.

 

Durante questa parabola, ha dovuto fare di tutto, pur di aiutare la sua gente: il sarto, il ciabattino, l'infermiere, il chirurgo, il guaritore efficace del vaiolo col vaccino confezionato dalle sue stesse mani (si calcola che abbia vaccinato 40.000 persone!); l'esploratore, lo studioso geografico, l'inventore dell'alfabeto scritto della lingua amarica e il compilatore della relativa grammatica; ha dovuto industriarsi a fare la carta su cui scrivere i suoi appunti dei più svariati generi.

 

Ha dovuto sostenere difficoltà e insidie rocambolesche a ritmo incalzante che avrebbero stroncato chiunque; affrontare pericoli di ogni genere per terra e per acqua, non escluso quello dell'impatto con animali feroci e velenosi; per tanto tempo ha pesato su di lui la scomunica e la condanna a morte da parte dell'abuna Salama II, un vescovo copto che voleva eliminare ogni seme e presenza della religione e Chiesa cattolica. Per dare compimento a questo malsano progetto omicida, lo stessa abuna Salama aveva indetto e stava conducendo nel suo territorio una crociata con il supporto di una taglia per poter catturare il Vescovo cappuccino cattolico e eliminarlo; questo Vescovo, nonostante tutte queste trappole e angherie, non si è lasciato prendere dalla paura e non si è dato per vinto, ma ha sostenuto un girovagare martoriante per sfuggire a ripetuti complotti mortali. Pur essendo Vescovo, ha dovuto anche nascondersi sotto un cognome diverso e una identità solo civile: farsi passare per il dottor Giorgio Bartorelli (nome del padrino di Battesimo e cognome modificato della mamma).

 

Il suo episcopio, per ben quasi sei anni prima di arrivare alla sua destinazione residenziale, spesso e volentieri è stato ora una tenda, ora una capanna, ora una grotta, ora una stamberga, ora la terra battuta.

 

Anche la Ordinazione episcopale di colui che oggi è S. Giustino De Jacobis, "un religioso lazzarista di sconfinata umiltà e già in vita in fama di santità presso le varie popolazioni", avvenne di notte in un ambiente di quattro metri per tre su un altare fatto di tre casse messe una sopra l'altra.

 

Al Massaja si deve praticamente anche la fondazione della Città di Addis Abeba, partendo dall'insediamento di una colonia agricola che in breve tempo ebbe una celerissima espansione e bellezza, tanto da essere chiamata "Nuovo Fiore" ossia Addis Abeba appunto!

 

Nei suoi 35 anni non sono mancate laceranti sofferenze morali: l'abbandono, l'isolamento, la dimenticanza, il silenzio, la bocciatura di sussidi pastorali elaborati da lui stesso, l'incomprensione dei suoi criteri missionari, ma neppure il suo tenace e schietto amore alla Chiesa nonostante tutto.

 

Si potrebbe dire che ha vissuto il martirio della carità pastorale nell'esercizio del dono della fortezza, "un martirio non di sangue, come scrisse all'allora Mons. Comboni, ora San Daniele, ma di cuore e di tribolazione,… di paziente fatica".

 

La memoria di tutte queste peripezie, per desiderio felice, provvidenziale e forte del Papa Leone XIII, fu consegnata a circa 4.000 pagine e inizialmente pubblicate in 12 volumi.

 

Il Papa aveva intuito che "l'avventura così colossale" del Massaja non doveva e non poteva restare ignota e raccontata solo verbalmente; per questo gli aveva  assegnato un'abitazione a Frascati dove, mentre si riposava e si curava, poteva e doveva attendere alla stesura, fino a scrivere anche per 15 ore al giorno, dei suoi famosi, emblematici e quasi leggendari: "I miei 35 anni di missione".

 

Il compimento della lunga parabola esistenziale e missionaria del Massaja avviene all'insegna di questo suo pensiero: "Ormai non penso più che a un cosa sola: a stare nella grazia di Dio, per il giorno della chiamata" che lo raggiunge a Napoli dove si era recato perché l'aria che vi respirava gli sembrava che lo ringiovanisse nella mente e nelle forze. Così "La cara morte era venuta a metter fine a tutti i bisogni, eccetto quello di amare Dio".

 

La Chiesa può dirsi fiera e contenta di aver generato e formato un cristiano, un religioso prete, vescovo e cardinale, un missionario, un servo di Dio come il cappuccino fra Guglielmo Massaja.

 

Oliveri Mons. Guido



 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE, Piazza San Pietro, 17 Dicembre 2025

Udienza Generale del 17 dicembre 2025 - Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. IV. La Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale. 8. La Pasqua come approdo del cuore inquieto

Saluto del Santo Padre ai malati in Aula Paolo VI prima dell’Udienza Generale

Buongiorno a tutti! Good morning! Welcome!

Faccio un breve saluto, una benedizione per ognuno di voi.

In questa giornata volevamo difendervi un po’ dagli elementi, dal freddo soprattutto... Non sta piovendo, però così forse state un po’ più comodi. Dopo potrete seguire l’Udienza sullo schermo, o se volete potete anche uscire, però approfittiamo di questo piccolo incontro un po’ più personale, così, per salutarvi, per offrirvi la benedizione del Signore, e anche un augurio. Siamo già vicino alla festa di Natale e vogliamo chiedere al Signore che la gioia di questo tempo di Natale vi accompagni tutti: le vostre famiglie, i vostri cari, e che siate sempre nelle mani del Signore con la fiducia, con l’amore che solo Dio ci può dare.

Do la benedizione a tutti adesso, poi passo a salutarvi.

Benedizione

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

La vita umana è caratterizzata da un movimento costante che ci spinge a fare, ad agire. Oggi si richiede ovunque rapidità nel conseguire risultati ottimali negli ambiti più svariati. In che modo la risurrezione di Gesù illumina questo tratto della nostra esperienza? Quando parteciperemo alla sua vittoria sulla morte, ci riposeremo? La fede ci dice: sì, riposeremo. Non saremo inattivi, ma entreremo nel riposo di Dio, che è pace e gioia. Ebbene, dobbiamo solo aspettare, o questo ci può cambiare fin da ora?

Siamo assorbiti da tante attività che non sempre ci rendono soddisfatti. Molte delle nostre azioni hanno a che fare con cose pratiche, concrete. Dobbiamo assumerci la responsabilità di tanti impegni, risolvere problemi, affrontare fatiche. Anche Gesù si è coinvolto con le persone e con la vita, non risparmiandosi, anzi donandosi fino alla fine. Eppure, percepiamo spesso quanto il troppo fare, invece di darci pienezza, diventi un vortice che ci stordisce, ci toglie serenità, ci impedisce di vivere al meglio ciò che è davvero importante per la nostra vita. Ci sentiamo allora stanchi, insoddisfatti: il tempo pare disperdersi in mille cose pratiche che però non risolvono il significato ultimo della nostra esistenza. A volte, alla fine di giornate piene di attività, ci sentiamo vuoti. Perché? Perché noi non siamo macchine, abbiamo un “cuore”, anzi, possiamo dire, siamo un cuore.

Il cuore è il simbolo di tutta la nostra umanità, sintesi di pensieri, sentimenti e desideri, il centro invisibile delle nostre persone. L’evangelista Matteo ci invita a riflettere sull’importanza del cuore, nel riportare questa bellissima frase di Gesù: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).

È dunque nel cuore che si conserva il vero tesoro, non nelle casseforti della terra, non nei grandi investimenti finanziari, mai come oggi impazziti e ingiustamente concentrati, idolatrati al sanguinoso prezzo di milioni di vite umane e della devastazione della creazione di Dio.

È importante riflettere su questi aspetti, perché nei numerosi impegni che di continuo affrontiamo, sempre più affiora il rischio della dispersione, talvolta della disperazione, della mancanza di significato, persino in persone apparentemente di successo. Invece, leggere la vita nel segno della Pasqua, guardarla con Gesù Risorto, significa trovare l’accesso all’essenza della persona umana, al nostro cuore: cor inquietum. Con questo aggettivo “inquieto”, Sant’Agostino ci fa comprendere lo slancio dell’essere umano proteso al suo pieno compimento. La frase integrale rimanda all’inizio delle Confessioni, dove Agostino scrive: «Signore, ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te» (I, 1,1).

L’inquietudine è il segno che il nostro cuore non si muove a caso, in modo disordinato, senza un fine o una meta, ma è orientato alla sua destinazione ultima, quella del “ritorno a casa”. E l’approdo autentico del cuore non consiste nel possesso dei beni di questo mondo, ma nel conseguire ciò che può colmarlo pienamente, ovvero l’amore di Dio, o meglio, Dio Amore. Questo tesoro, però, lo si trova solo amando il prossimo che si incontra lungo il cammino: i fratelli e le sorelle in carne e ossa, la cui presenza sollecita e interroga il nostro cuore, chiamandolo ad aprirsi e a donarsi. Il prossimo ti chiede di rallentare, di guardarlo negli occhi, a volte di cambiare programma, forse anche di cambiare direzione.

Carissimi, ecco il segreto del movimento del cuore umano: tornare alla sorgente del suo essere, godere della gioia che non viene meno, che non delude. Nessuno può vivere senza un significato che vada oltre il contingente, oltre ciò che passa. Il cuore umano non può vivere senza sperare, senza sapere di essere fatto per la pienezza, non per la mancanza.

Gesù Cristo, con la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione ha dato fondamento solido a questa speranza. Il cuore inquieto non sarà deluso, se entra nel dinamismo dell’amore per cui è creato. L’approdo è certo, la vita ha vinto e in Cristo continuerà a vincere in ogni morte del quotidiano. Questa è la speranza cristiana: benediciamo e ringraziamo sempre il Signore che ce l’ha donata!

LEONE XIV