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PELLEGRINAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO A BOZZOLO (DIOCESI DI CREMONA) E A BARBIANA (DIOCESI DI FIRENZE)

Martedì, 20 giugno 2017

 VISITA ALLA TOMBA DI DON PRIMO MAZZOLARI

Chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo - Bozzolo (Cremona)
 

 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

 

Mi hanno consigliato di accorciare un po’ questo discorso, perché è un po’ lunghetto. Ho cercato di farlo, ma non ci sono riuscito. Tante cose venivano, di qua e di qua e di qua… Ma voi avete pazienza! Perché non vorrei tralasciare di dire tutto quello che vorreidire, su don Primo Mazzolari.

Sono pellegrino qui a Bozzolo e poi a Barbiana, sulle orme di due parroci che hanno lasciato una traccia luminosa, per quanto “scomoda”, nel loro servizio al Signore e al popolo di Dio. Ho detto più volte che i parroci sono la forza della Chiesa in Italia, e lo ripeto. Quando sono i volti di un clero non clericale, come era quest’uomo, essi danno vita ad un vero e proprio “magistero dei parroci”, che fa tanto bene a tutti. Don Primo Mazzolari è stato definito “il parroco d’Italia”; e San Giovanni XXIII lo ha salutato come «la tromba dello Spirito Santo nella Bassa padana». Credo che la personalità sacerdotale di don Primo sia non una singolare eccezione, ma uno splendido frutto delle vostre comunità, sebbene non sia stato sempre compreso e apprezzato. Come disse il Beato Paolo VI: «Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva tener dietro! E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. E’ il destino dei profeti» (Saluto ai pellegrini di Bozzolo e Cicognara, 1 maggio 1970). La sua formazione è figlia della ricca tradizione cristiana di questa terra padana, lombarda, cremonese. Negli anni della giovinezza fu colpito dalla figura del grande vescovo Geremia Bonomelli, protagonista del cattolicesimo sociale, pioniere della pastorale degli emigranti.

Non spetta a me raccontarvi o analizzare l’opera di don Primo. Ringrazio chi negli anni si è dedicato a questo. Preferisco meditare con voi – soprattutto con i miei fratelli sacerdoti che sono qui e anche con quelli di tutta l’Italia: questo era il “parroco d’Italia” – meditare l’attualità del suo messaggio, che pongo simbolicamente sullo sfondo di tre scenari che ogni giorno riempivano i suoi occhi e il suo cuore: il fiume, la cascina e la pianura.

 

1) Il fiume è una splendida immagine, che appartiene alla mia esperienza, e anche alla vostra. Don Primo ha svolto il suo ministero lungo i fiumi, simboli del primato e della potenza della grazia di Dio che scorre incessantemente verso il mondo. La sua parola, predicata o scritta, attingeva chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli uomini, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito. Don Mazzolari, parroco a Cicognara e a Bozzolo, non si è tenuto al riparo dal fiume della vita, dalla sofferenza della sua gente, che lo ha plasmato come pastore schietto ed esigente, anzitutto con sé stesso. Lungo il fiume imparava a ricevere ogni giorno il dono della verità e dell’amore, per farsene portatore forte e generoso. Predicando ai seminaristi di Cremona, ricordava: «L’essere un “ripetitore” è la nostra forza. […] Però, tra un ripetitore morto, un altoparlante, e un ripetitore vivo c’è una bella differenza! Il sacerdote è un ripetitore, però questo suo ripetere non deve essere senz’anima, passivo, senza cordialità. Accanto alla verità che ripeto, ci deve essere, ci devo mettere qualcosa di mio, per far vedere che credo a ciò che dico; deve essere fatto in modo che il fratello senta un invito a ricevere la verità».[1] La sua profezia si realizzava nell’amare il proprio tempo, nel legarsi alla vita delle persone che incontrava, nel cogliere ogni possibilità di annunciare la misericordia di Dio. Don Mazzolari non è stato uno che ha rimpianto la Chiesa del passato, ma ha cercato di cambiare la Chiesa e il mondo attraverso l’amore appassionato e la dedizione incondizionata. Nel suo scritto “La parrocchia”, egli propone un esame di coscienza sui metodi dell’apostolato, convinto che le mancanze della parrocchia del suo tempo fossero dovute a un difetto di incarnazione. Ci sono tre strade che non conducono nella direzione evangelica.

- La strada del “lasciar fare”. E’ quella di chi sta alla finestra a guardare senza sporcarsi le mani - quel “balconear” la vita -. Ci si accontenta di criticare, di «descrivere con compiacimento amaro e altezzoso gli errori» [2] del mondo intorno. Questo atteggiamento mette la coscienza a posto, ma non ha nulla di cristiano perché porta a tirarsi fuori, con spirito di giudizio, talvolta aspro. Manca una capacità propositiva, un approccio costruttivo alla soluzione dei problemi.

- Il secondo metodo sbagliato è quello dell’“attivismo separatista”. Ci si impegna a creare istituzioni cattoliche (banche, cooperative, circoli, sindacati, scuole...). Così la fede si fa più operosa, ma – avvertiva Mazzolari – può generare una comunità cristiana elitaria. Si favoriscono interessi e clientele con un’etichetta cattolica. E, senza volerlo, si costruiscono barriere che rischiano di diventare insormontabili all’emergere della domanda di fede. Si tende ad affermare ciò che divide rispetto a quello che unisce. E’ un metodo che non facilita l’evangelizzazione, chiude porte e genera diffidenza.

Il terzo errore è il “soprannaturalismo disumanizzante”. Ci si rifugia nel religioso per aggirare le difficoltà e le delusioni che si incontrano. Ci si estranea dal mondo, vero campo dell’apostolato, per preferire devozioni. E’ la tentazione dello spiritualismo. Ne deriva un apostolato fiacco, senza amore. «I lontani non si possono interessare con una preghiera che non diviene carità, con una processione che non aiuta a portare le croci dell’ora». [3] Il dramma si consuma in questa distanza tra la fede e la vita, tra la contemplazione e l’azione.

 

2) La cascina. Al tempo di don Primo, era una “famiglia di famiglie”, che vivevano insieme in queste fertili campagne, anche soffrendo miserie e ingiustizie, in attesa di un cambiamento, che è poi sfociato nell’esodo verso le città. La cascina, la casa, ci dicono l’idea di Chiesa che guidava don Mazzolari. Anche lui pensava a una Chiesa in uscita, quando meditava per i sacerdoti con queste parole: «Per camminare bisogna uscire di casa e di Chiesa, se il popolo di Dio non ci viene più; e occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni che, pur non essendo spirituali, sono bisogni umani e, come possono perdere l’uomo, lo possono anche salvare. Il cristiano si è staccato dall’uomo, e il nostro parlare non può essere capito se prima non lo introduciamo per questa via, che pare la più lontana ed è la più sicura. [...] Per fare molto, bisogna amare molto».[4] Così diceva il vostro parroco. La parrocchia è il luogo dove ogni uomo si sente atteso, un «focolare che non conosce assenze». Don Mazzolari è stato un parroco convinto che «i destini del mondo si maturano in periferia», e ha fatto della propria umanità uno strumento della misericordia di Dio, alla maniera del padre della parabola evangelica, così ben descritta nel libro “La più bella avventura”. Egli è stato giustamente definito il “parroco dei lontani”, perché li ha sempre amati e cercati, si è preoccupato non di definire a tavolino un metodo di apostolato valido per tutti e per sempre, ma di proporre il discernimento come via per interpretare l’animo di ogni uomo. Questo sguardo misericordioso ed evangelico sull’umanità lo ha portato a dare valore anche alla necessaria gradualità: il prete non è uno che esige la perfezione, ma che aiuta ciascuno a dare il meglio. «Accontentiamoci di ciò che possono dare le nostre popolazioni. Abbiamo del buon senso! Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente».[5] Io vorrei ripetere questo, e ripeterlo a tutti i preti dell’Italia e anche del mondo: Abbiamo del buon senso! Non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente. E se, per queste aperture, veniva richiamato all’obbedienza, la viveva in piedi, da adulto, da uomo, e contemporaneamente in ginocchio, baciando la mano del suo Vescovo, che non smetteva di amare.

 

3) Il terzo scenario – il primo era il fiume, il secondo la cascina – il terzo scenario è quello della vostra grande pianura. Chi ha accolto il “Discorso della montagna” non teme di inoltrarsi, come viandante e testimone, nella pianura che si apre, senza rassicuranti confini. Gesù prepara a questo i suoi discepoli, conducendoli tra la folla, in mezzo ai poveri, rivelando che la vetta si raggiunge nella pianura, dove si incarna la misericordia di Dio (cfr Omelia per il Concistoro, 19 novembre 2016). Alla carità pastorale di don Primo si aprivano diversi orizzonti, nelle complesse situazioni che ha dovuto affrontare: le guerre, i totalitarismi, gli scontri fratricidi, la fatica della democrazia in gestazione, la miseria della sua gente. Vi incoraggio, fratelli sacerdoti, ad ascoltare il mondo, chi vive e opera in esso, per farvi carico di ogni domanda di senso e di speranza, senza temere di attraversare deserti e zone d’ombra. Così possiamo diventare Chiesa povera per e con i poveri, la Chiesa di Gesù. Quella dei poveri è definita da don Primo un’“esistenza scomodante”, e la Chiesa ha bisogno di convertirsi al riconoscimento della loro vita per amarli così come sono: «I poveri vanno amati come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del regno dei cieli, molto meno dei proseliti».[6] Lui non faceva proselitismo, perché questo non è cristiano. Papa Benedetto XVI ci ha detto che la Chiesa, il cristianesimo, non cresce per proselitismo, ma per attrazione, cioè per testimonianza. E’ quello che don Primo Mazzolari ha fatto: testimonianza. Il Servo di Dio ha vissuto da prete povero, non da povero prete. Nel suo testamento spirituale scriveva: «Intorno al mio Altare come intorno alla mia casa e al mio lavoro non ci fu mai “suon di denaro”. Il poco che è passato nelle mie mani […] è andato dove doveva andare. Se potessi avere un rammarico su questo punto, riguarderebbe i miei poveri e le opere della parrocchia che avrei potuto aiutare largamente». Aveva meditato a fondo sulla diversità di stile tra Dio e l’uomo: «Lo stile dell’uomo: con molto fa poco. Lo stile di Dio: con niente fa tutto».[7] Per questo la credibilità dell’annuncio passa attraverso la semplicità e la povertà della Chiesa: «Se vogliamo riportare la povera gente nella loro Casa, bisogna che il povero vi trovi l’aria del Povero», cioè di Gesù Cristo. Nel suo scritto La via crucis del povero, don Primo ricorda che la carità è questione di spiritualità e di sguardo. «Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità non vede nessuno».[8] E aggiunge: «Chi conosce il povero, conosce il fratello: chi vede il fratello vede Cristo, chi vede Cristo vede la vita e la sua vera poesia, perché la carità è la poesia del cielo portata sulla terra».[9]

Cari amici, vi ringrazio di avermi accolto oggi, nella parrocchia di don Primo. A voi e ai Vescovi dico: siate orgogliosi di aver generato “preti così”, e non stancatevi di diventare anche voi “preti e cristiani così”, anche se ciò chiede di lottare con sé stessi, chiamando per nome le tentazioni che ci insidiano, lasciandoci guarire dalla tenerezza di Dio. Se doveste riconoscere di non aver raccolto la lezione di don Mazzolari, vi invito oggi a farne tesoro. Il Signore, che ha sempre suscitato nella santa madre Chiesa pastori e profeti secondo il suo cuore, ci aiuti oggi a non ignorarli ancora. Perché essi hanno visto lontano, e seguirli ci avrebbe risparmiato sofferenze e umiliazioni. Tante volte ho detto che il pastore deve essere capace di mettersi davanti al popolo per indicare la strada, in mezzo come segno di vicinanza o dietro per incoraggiare chi è rimasto dietro (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 31). E don Primo scriveva: «Dove vedo che il popolo slitta verso discese pericolose, mi metto dietro; dove occorre salire, m’attacco davanti. Molti non capiscono che è la stessa carità che mi muove nell’uno e nell’altro caso e che nessuno la può far meglio di un prete».[10]

Con questo spirito di comunione fraterna, con voi e con tutti i preti della Chiesa in Italia - con quei bravi parroci - vorrei concludere con una preghiera di don Primo, parroco innamorato di Gesù e del suo desiderio che tutti gli uomini abbiano la salvezza. Così pregava don Primo:

«Sei venuto per tutti: per coloro che credono e per coloro che dicono di non credere. Gli uni e gli altri, a volte questi più di quelli, lavorano, soffrono, sperano perché il mondo vada un po’ meglio. O Cristo, sei nato “fuori della casa” e sei morto “fuori della città”, per essere in modo ancor più visibile il crocevia e il punto d’incontro. Nessuno è fuori della salvezza, o Signore, perché nessuno è fuori del tuo amore, che non si sgomenta né si raccorcia per le nostre opposizioni o i nostri rifiuti».

Adesso, vi darò la benedizione. Preghiamo la Madonna, prima, che è nostra Madre: senza Madre non possiamo andare avanti.

Ave o Maria, …

[Benedizione]

_______________________________________

[1] P. Mazzolari, Preti così, 125-126.

[2] Id., Lettera sulla parrocchia, 51.

[3] Ibid., 54.

[4] P. Mazzolari, Coscienza sociale del clero, ICAS, Milano, 1947, 32.

[5] Id., Preti così, 118-119.

[6] Id., La via crucis del povero, 63.

[7] Id., La parrocchia, 84.

[8] Id., La via crucis del povero, 32.

[9] Ibid. 33.

[10] Id., Scritti politici, 195.

 

 

 

 VISITA ALLA TOMBA DI DON LORENZO MILANI

Giardino adiacente la Chiesa di Sant'Andrea a Barbiana (Firenze)
 

Cari fratelli e sorelle, sono venuto a Barbiana per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve, perché sia difesa e promossa la loro dignità di persone, con la stessa donazione di sé che Gesù ci ha mostrato, fino alla croce.

 

1. Mi rallegro di incontrare qui coloro che furono a suo tempo allievi di don Lorenzo Milani, alcuni nella scuola popolare di San Donato a Calenzano, altri qui nella scuola di Barbiana. Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato. E siete testimoni della sua passione educativa, del suo intento di risvegliare nelle persone l’umano per aprirle al divino.

Di qui il suo dedicarsi completamente alla scuola, con una scelta che qui a Barbiana egli attuerà in maniera ancora più radicale. La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. E quando la decisione del Vescovo lo condusse da Calenzano a qui, tra i ragazzi di Barbiana, capì subito che se il Signore aveva permesso quel distacco era per dargli dei nuovi figli da far crescere e da amare. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella pienaumanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra, accanto al pane, alla casa, al lavoro, alla famiglia, fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità.

 

2.  Sono qui anche alcuni ragazzi e giovani, che rappresentano per noi i tanti ragazzi e giovani che oggi hanno bisogno di chi li accompagni nel cammino della loro crescita. So che voi, come tanti altri nel mondo, vivete in situazioni di marginalità, e che qualcuno vi sta accanto per non lasciarvi soli e indicarvi una strada di possibile riscatto, un futuro che si apra su orizzonti più positivi. Vorrei da qui ringraziare tutti gli educatori, quanti si pongono al servizio della crescita delle nuove generazioni, in particolare di coloro che si trovano in situazioni di disagio. La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. Una missione di amore, perché non si può insegnare senza amare e senza la consapevolezza che ciò che si dona è solo un diritto che si riconosce, quello di imparare. E da insegnare ci sono tante cose, ma quella essenziale è la crescita di una coscienza libera, capace di confrontarsi con la realtà e di orientarsi in essa guidata dall’amore, dalla voglia di compromettersi con gli altri, di farsi carico delle loro fatiche e ferite, di rifuggire da ogni egoismo per servire il bene comune. Troviamo scritto in Lettera a una professoressa: «Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi.

 

3.   Infine, ma non da ultimo, mi rivolgo a voi sacerdoti che ho voluto accanto a me qui a Barbiana. Vedo tra voi preti anziani, che avete condiviso con don Lorenzo Milani gli anni del seminario o il ministero in luoghi qui vicini; e anche preti giovani, che rappresentano il futuro del clero fiorentino e italiano. Alcuni di voi siete dunque testimoni dell’avventura umana e sacerdotale di don Lorenzo, altri ne siete eredi. A tutti voglio ricordare che la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: «Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire» (Nazzareno Fabbretti, “Intervista a Mons. Raffaele Bensi”, Domenica del Corriere, 27 giugno 1971). Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: «Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale». Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli. Cari preti, con la grazia di Dio, cerchiamo di essere uomini di fede, una fede schietta, non annacquata; e uomini di carità, carità pastorale verso tutti coloro che il Signore ci affida come fratelli e figli. Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni. Amiamo la Chiesa, cari confratelli, e facciamola amare, mostrandola come madre premurosa di tutti, soprattutto dei più poveri e fragili, sia nella vita sociale sia in quella personale e religiosa. La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità.

 

4. Prima di concludere, non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato…». Dal Card. Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: «Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui… quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio… Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Per esempio il suo profondo equilibrio fra durezza e carità» (Nazareno Fabbretti, “Incontro con la madre del parroco di Barbiana a tre anni dalla sua morte”, Il Resto del Carlino, Bologna, 8 luglio 1970. Il prete «trasparente e duro come un diamante» continua a trasmettere la luce di Dio sul cammino della Chiesa. Prendete la fiaccola e portatela avanti! Grazie.

[Ave Maria]

[Benedizione]

Grazie tante di nuovo! Pregate per me, non dimenticatevi. Che anche io prenda l’esempio di questo bravo prete! Grazie della vostra presenza. Che il Signore vi benedica. E voi sacerdoti, tutti - perché non c’è pensione nel sacerdozio! -, tutti, avanti e con coraggio! Grazie.

 


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 Aerei d'epoca

 

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Messaggio Cristiano
UDIENZA GENERALE, 1° Maggio 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 17. La fede

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei parlare della virtù della fede. Insieme con la carità e la speranza, questa virtù è detta “teologale”. Le virtù teologali sono tre: fede, speranza e carità. Perché sono teologali? Perché le si può vivere solo grazie al dono di Dio. Le tre virtù teologali sono i grandi doni che Dio fa alla nostra capacità morale. Senza di esse noi potremmo essere prudenti, giusti, forti e temperanti, ma non avremmo occhi che vedono anche nel buio, non avremmo un cuore che ama anche quando non è amato, non avremmo una speranza che osa contro ogni speranza.

Che cos’è la fede? Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci spiega che la fede è l’atto con cui l’essere umano si abbandona liberamente a Dio (n. 1814). In questa fede, Abramo è stato il grande padre. Quando accettò di lasciare la terra dei suoi antenati per dirigersi verso la terra che Dio gli avrebbe indicato, probabilmente sarà stato giudicato folle: perché lasciare il noto per l’ignoto, il certo per l’incerto? Ma perché fare quello? È pazzo? Ma Abramo parte, come se vedesse l’invisibile. Questo dice la Bibbia di Abramo: “Andò come se vedesse l’invisibile”. È bello questo. E sarà ancora questo invisibile a farlo salire sul monte con il figlio Isacco, l’unico figlio della promessa, che solo all’ultimo momento sarà risparmiato dal sacrificio. In questa fede, Abramo diventa padre di una lunga schiera di figli. La fede lo ha reso fecondo.

Uomo di fede sarà Mosè, il quale, accogliendo la voce di Dio anche quando più di un dubbio poteva scuoterlo, continuò a restare saldo e a fidarsi del Signore, e persino a difendere il popolo che invece tante volte mancava di fede.

Donna di fede sarà la Vergine Maria, la quale, ricevendo l’annuncio dell’Angelo, che molti avrebbero liquidato perché troppo impegnativo e rischioso, risponde: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). E con il cuore pieno di fede, con il cuore pieno di fiducia in Dio, Maria parte per una strada di cui non conosce né il tracciato né i pericoli.

La fede è la virtù che fa il cristiano. Perché essere cristiani non è anzitutto accettare una cultura, con i valori che l’accompagnano, ma essere cristiano è accogliere e custodire un legame, un legame con Dio: io e Dio; la mia persona e il volto amabile di Gesù. Questo legame è quello che ci fa cristiani.

A proposito della fede, viene in mente un episodio del Vangelo. I discepoli di Gesù stanno attraversando il lago e vengono sorpresi dalla tempesta. Pensano di cavarsela con la forza delle loro braccia, con le risorse dell’esperienza, ma la barca comincia a riempirsi d’acqua e vengono presi dal panico (cfr Mc 4,35-41). Non si rendono conto di avere la soluzione sotto gli occhi: Gesù è lì con loro sulla barca, in mezzo alla tempesta, e Gesù dorme, dice il Vangelo. Quando finalmente lo svegliano, impauriti e anche arrabbiati perché Lui li lascia morire, Gesù li rimprovera: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).

Ecco, dunque, la grande nemica della fede: non è l’intelligenza, non è la ragione, come, ahimè, qualcuno continua ossessivamente a ripetere, ma la grande nemica della fede è la paura. Per questo motivo la fede è il primo dono da accogliere nella vita cristiana: un dono che va accolto e chiesto quotidianamente, perché si rinnovi in noi. Apparentemente è un dono da poco, eppure è quello essenziale. Quando ci hanno portato al fonte battesimale, i nostri genitori, dopo aver annunciato il nome che avevano scelto per noi, si sono sentiti interrogare dal sacerdote – questo è successo nel nostro Battesimo –: «Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». E i genitori hanno risposto: «La fede, il battesimo!».

Per un genitore cristiano, consapevole della grazia che gli è stata regalata, quello è il dono da chiedere anche per suo figlio: la fede. Con essa un genitore sa che, pur in mezzo alle prove della vita, suo figlio non annegherà nella paura. Ecco, il nemico è la paura. Sa anche che, quando cesserà di avere un genitore su questa terra, continuerà ad avere un Dio Padre nei cieli, che non lo abbandonerà mai. Il nostro amore è così fragile, e solo l’amore di Dio vince la morte.

Certo, come dice l’Apostolo, la fede non è di tutti (cfr 2 Ts 3,2), e anche noi, che siamo credenti, spesso ci accorgiamo di averne solo una piccola scorta. Spesso Gesù ci può rimproverare, come fece coi suoi discepoli, di essere “uomini di poca fede”. Però è il dono più felice, l’unica virtù che ci è concesso di invidiare. Perché chi ha fede è abitato da una forza che non è solo umana; infatti, la fede “innesca” la grazia in noi e dischiude la mente al mistero di Dio. Come disse una volta Gesù: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Perciò anche noi, come i discepoli, gli ripetiamo: Signore, aumenta la nostra fede! (cfr Lc 17,5) È una bella preghiera! La diciamo tutti insieme? “Signore, aumenta la nostra fede”. La diciamo insieme: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede”. Troppo debole, un po’ più forte: [tutti] “Signore, aumenta la nostra fede!”. Grazie.

Papa Francesco