A tutto campo


Willy, il clochard sepolto in Vaticano

Il VIDEO di TV2000

 
 

 

 
 
 
 
 

 

 
 
 

Un clochard sepolto in Vaticano. Ne ha parlato un servizio del Tg2000, ieri sera. Willy, questo il nome del clochard, era conosciuto dai gendarmi e dalla guardie svizzere del portone di Sant’Anna, dagli abitanti dei borghi nei dintorni del Vaticano, da suore e prelati. Monsignor Americo Ciani, canonico della basilica vaticana, appassionato di pittura, lo aveva ritratto con il suo trolley, la barba e il cappotto, la croce al collo: era diventato suo amico e da qualche tempo si era accorto della sua assenza. «Aveva questa forza interiore - ha detto monsignor Ciani ai microfoni di Tg2000 - dovuta proprio alla comunione con Dio, tanto che diceva: ‘La mia medicina è la comunione’. A tutti chiedeva: ‘Ma lei da quanto tempo non fa la confessione?. Guardi che per andare in Paradiso bisogna confessarsi, riconciliarsi con Dio’». Willy, di origine fiamminga, aveva un’ottantina d’anni e seri problemi di salute, da decenni viveva da clochard con la preghiera e il sorriso sulle labbra. Dormiva sotto la rampa che porta al Gianicolo, vicino alla Galleria di Porta Cavalleggeri.

 

 

IL VIDEO DI TV2000

   
 

 

Willy è morto nell’ospedale Santo Spirito. Nel servizio del Tg2000 lo ricorda anche Renato Russomanno, responsabile della vigilanza dell’Ospedale Santo Spirito: “Lo conoscevamo perché veniva spesso qui”. “Tempo fa - prosegue Russomanno - mi hanno detto che era ricoverato in chirurgia”. Dopo ha saputo che era deceduto. Quando qualcuno, agli inizi di gennaio, ha pensato di seppellirlo in Vaticano, è stato subito accordato il permesso, in linea con la vicinanza di Papa Francesco a chi vive ai margini della società: così Willy adesso riposa nel cimitero teutonico, dove sono sepolte persone illustri, ecclesiastici, nobili e cavalieri di origine austriaca, svizzero-tedesca, fiamminga e lussemburghese.

 

 
 
 
Lo svegliatore notturno
 
 
   UN PENSIERO PER L'AVVENTO . LO SVEGLIATORE NOTTURNO - CARDINALE RAVASI

 

 

In un mondo dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura" È necessario uno svegliatore notturno" che smantelli per dar posto alla luce" Il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges un giorno confessò il suo amore per Giovanni Papini «immeritatamente dimenticato».


Effettivamente, superando la scorza della sua enfasi veemente e del suo sdegno permanente, la voce di questo autore fiorentino meriterebbe di risuonare nei nostri giorni così grigi e annoiati, nei quali domina la tetrade da lui evocata: «Mangiare, far quattrini, divertirsi, comandare».


Ho attinto la citazione a quella sorta di autobiografia o diario esistenziale che è Un uomo finito (1913) e da quel testo che non richiede commenti vorrei solo estrarre un'immagine suggestiva e incisiva, quella dello «svegliatore notturno». È significativo che sia Cristo sia Paolo usino la sostanza di questo simbolo: «Vegliate, state svegli" È tempo di svegliarvi dal sonno" La notte è avanzata, il giorno è vicino" Indossiamo le armi della luce!».


Il torpore, la sazietà, l'indifferenza, la superficialità, che si distendono come una coltre nebbiosa o come un sudario di morte sulla società contemporanea, devono essere squarciati dalla voce forte dello «svegliatore» che inquieti le coscienze, che susciti le domande di senso e che " come dice Papini in modo efficace e vivido " «faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie», il mistero e la bellezza che si celano sotto il velo comune della realtà quotidiana.

 

 
 
C'era una volta, tanti anni fa, un contadino ignorante che per la prima volta in vita sua andò a visitare un giardino zoologico. A un certo punto arrivò al recinto dove si trovava la giraffa. Visibilmente stizzito, rimirò a lungo l'animale. Infine gli volse le spalle e s'allontanò, borbottando arrabbiato: un animale così non esiste!
 
È uno dei più noti e apprezzati scrittori israeliani, Amos Oz, a inserire nel suo libro In terra d'Israele questo buffo apologo tradizionale che ben esprime, sotto il velo della fiaba metaforica, un atteggiamento che non è certo appannaggio solo di qualche «contadino ignorante».
 
Un po' tutti, infatti, talvolta nella vita ci siamo fasciati la testa, come si suol dire, abbiamo chiuso gli occhi e tappato le orecchie per non ammettere una verità che non coincideva con le nostre ipotesi o supposizioni. Anzi, non di rado siamo stati pronti a rasentare il ridicolo pur di non sconfessare una nostra idea. E non è detto che alla fine l'evidenza trionfa, perché in molti casi una convinzione personale è talmente forte da accecare.
 
Ecco, allora, il tentativo patetico di contraffare o di respingere la realtà pur di salvaguardare la propria granitica certezza. Un maestro di retorica oratoria com'era il greco Demostene, che ben conosceva i meccanismi della persuasione, in una delle sue “orazioni” – la cosiddetta Terza Olintica per la precisione – osservava che «nulla è più facile dell'illudersi, perché quello che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero».
 
Rassegnarsi a riconoscere l'errore del proprio convincimento è un'impresa quasi eroica quando l'orgoglio e l'incrollabile sicurezza si sono radicati nella mente e nel cuore. «Una convinzione – ammoniva il critico russo dell'Ottocento Vissarion Belinskij – ci dev'essere cara perché è vera, non perché è nostra».
 
 
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Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos'è un vagone ferroviario: chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia. Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla. Leggevo il Vangelo. Chiudevo gli occhi. Ascoltavo Dio. Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre. Sotto la presa dell'amore divino ero in pace. Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno. Io bisbigliavo col mio Dio. Secoli fa si ritiravano nel deserto egiziano, eppure gli eremiti s'accorgevano che la città li aveva inseguiti fin là col suo frastuono e le sue seduzioni. È possibile, però, un movimento inverso: diventare monaci urbani, figure di silenzio nel fragore assordante della modernità. Un po' come riescono a fare gli innamorati su un treno affollato, sospesi in una bolla di intimità, in cui si bisbigliano le loro tenerezze.
 
Il libro da cui abbiamo tratto il paragrafo citato s'intitola significativamente Il deserto nella città. L'ha scritto un mistico vissuto coi piedi piantati nella storia italiana, Carlo Carretto (1910-1988): il treno affollato e rumoroso si trasforma in un'oasi silenziosa, ove si può “bisbigliare” con Dio, con la stessa intimità dei due fidanzati.
 
Un'altra figura simile a fratel Carlo, la francese Madeleine Delbrêl, morta nel 1964 dopo una vita trascorsa nella banlieue parigina tra operai e diseredati, confessava: «Coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto; per questo a coloro che l'amano Dio non può rifiutarlo». Ma questa solitudine è incastonata nella quotidianità più fitta di rumori e di voci ed è simile a un seme di luce e di amore deposto nel terreno sassoso e spinoso delle fatiche, degli odi e delle bestemmie.
 
Con Carretto, che scelse la via dei Piccoli Fratelli del Vangelo di Charles de Foucauld, possiamo tentare tutti questa esperienza di deserto, non migrando nel Sahara o in un eremo, ma rimanendo sul treno di ogni mattina o nella piazza della nostra città.
 
 
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Pregava, chiedeva a Dio di aiutarlo, di dimorare in lui e di purificarlo, ma in realtà ciò che chiedeva si era già compiuto. Dio, che viveva in lui, si era destato nella sua coscienza. Lo sentì in sé, e per questo sentì non solo libertà, coraggio e gioia di vivere, ma sentì anche tutta la potenza del bene.
 
Poco più di un secolo fa, il 7 novembre 1910, Lev N. Tolstoj si spegneva in solitudine nel gelo della stazioncina di Astàpovo, durante una fuga dalla sua famiglia e un po' anche da sé stesso. Nell'oceano delle sue pagine abbiamo pensato di scegliere poche righe, emblematiche però della sua concezione religiosa che esaltava la presenza di Dio nella coscienza di ogni persona.
 
A percepire questa potenza vitale e salvifica è ora un principe, Dmitrij I. Nechljudov, il protagonista del romanzo Resurrezione (1899). Questo avviene quando egli riconosce in tribunale nell'imputata di omicidio Katjusha Maslova una cameriera delle sue zie da lui sedotta quand'era ancora ragazza. Da quell'istante il rimorso, ma anche un amore puro e assoluto spinge il principe a seguire questa donna ormai indurita dalle violenze e dal male, fino ai lavori forzati in Siberia ai quali essa è condannata.
 
È la storia di un'espiazione, ma anche di una “risurrezione” interiore, in mezzo ai diseredati e alle vittime che diventano gli annunciatori inconsapevoli del Vangelo di Cristo. Questa storia ha, però, la sua radice in quella presenza divina che pulsa nella coscienza, a cui dovremmo tutti lasciare più spazio. Non gettiamo su di essa la sabbia arida della distrazione perché la voce di Dio sia ridotta al silenzio. Ci sarà sempre una Katjusha che risveglierà la nostra anima e libererà quella voce.
 
 
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Per noi spesso è dove non siamo che stiamo bene. Così, il passato – ove non siamo più – ci appare bellissimo. «I veri paradisi sono i paradisi perduti»: è facile capire che a fare questa affermazione sia stato lo scrittore francese Marcel Proust che passò la sua esistenza «alla ricerca del tempo perduto», quasi fosse un'isola dei beati smarrita. La nostalgia lo attanagliava e lo faceva attendere non più l'alba del nuovo giorno, perché il suo volto era girato sempre verso il tramonto della giornata precedente, ormai irrimediabilmente trascorsa e ai suoi occhi alonata di luce dorata.
 
In modo più realistico, un altro grande scrittore come Anton Cechov nel testo sopra citato ci fa capire, invece, che questo rimpianto del passato è illusorio, frutto di una vera e propria deformazione della nostra ottica spirituale.
 
Di solito si evoca la moglie di Lot come simbolo negativo: «essa guardò indietro [verso Sodoma e Gomorra coperte da una coltre di zolfo e fuoco] e divenne una statua di sale» (Genesi 19,26). Come emblema positivo di un ritorno alle radici perdute è, invece, esaltato l'Ulisse omerico. Sta di fatto che camminare col viso rivolto indietro in una permanente deprecazione del presente, incapaci di progresso e chiusi in un cupo circuito di malinconia, è alla fine una malattia della psiche (la «nostomania», dicono gli psicologi), ma anche dello spirito che si raggela e cristallizza, perdendo ogni dinamismo e bloccandosi in un pedante conservatorismo.
 
È, però, necessario anche spezzare una lancia in difesa della nostalgia. Senza passato si è ben miseri, senza memoria non si riesce a progredire, senza radici si è smarriti e sperduti. Ed è proprio questo il rischio che stiamo correndo oggi, smemorati come siamo di un passato che ci potrebbe invece illuminare, eccitare e potenziare.
 
 
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1. Il frutto del silenzio è la preghiera. 2. Il frutto della preghiera è la fede. 3. Il frutto della fede è l'amore. 4. Il frutto dell'amore è il servizio. 5. Il frutto del servizio è la pace. Quand'era in vita, apriva le sue giornate proprio leggendo quel «Mattutino» che io proponevo ogni mattina: me l'aveva confessato lui stesso, Igor Man, grande giornalista scomparso un paio d'anni fa, persona di spontanea umanità e simpatia, oltre che di forte intelligenza. Un giorno mi inviò una lettera nella quale mi suggeriva questo testo, dicendomi che glielo aveva scritto in inglese su un foglietto Madre Teresa di Calcutta durante un incontro.
 
Per ricordare entrambe queste figure, ma anche per la «verità» di questi «cinque chicchi di riso», come li aveva intitolati la stessa autrice, vorrei affidarli a tutti i miei lettori. La semplicità del dettato non sminuisce, anzi fa risplendere la profonda spiritualità di questo messaggio nei cui confronti l'unica reazione possibile è l'esame personale di coscienza.
 
Sono come le stelle che dovrebbero accendersi nel cielo della vita di un cristiano: silenzio, preghiera, fede, amore, servizio, pace. Porrò l'accento solo su una coppia di termini che, a prima vista, possono sembrare sinonimi: amore e servizio. In realtà, il primo è un atteggiamento interiore radicale e permanente, è una luce costante dell'anima. Una luce che bagna e avvolge il servizio concreto che si offre. In tal modo quest'ultimo non è più mera filantropia o assistenza sociale, ma diventa un atto religioso, un gesto spirituale, un segno divino. Non è più un puro e semplice «servire» per contratto, ma un dono libero e gioioso.
 
 
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Se Cristo tornasse oggi tra noi, la gente non lo metterebbe più in croce. Lo inviterebbe a cena, lo ascolterebbe e gli riderebbe dietro le spalle. Non sono pochi i film che hanno immaginato un ritorno di Cristo per le strade di oggi, all'interno dei palazzi delle nostre metropoli e persino nelle chiese a lui consacrate. Un titolo per tutti: Jesus of Montreal del regista Denys Arcand (1989).

 

Jaroslav Pelikan scriveva nel 1985: «Al di là di ciò che ognuno possa personalmente pensare o credere di lui, Gesù di Nazaret è stato per quasi venti secoli la figura dominante nella storia della cultura occidentale». Ma se dovessimo immaginare un suo ritorno in mezzo a noi, potremmo forse correre il rischio di dar ragione allo storico scozzese Thomas Carlyle a cui dobbiamo la frase sopra proposta.

 

Eppure lui faceva questa affermazione nell'Ottocento. Oggi sarebbe ancor peggio. Potrebbe capitare a Gesù, con quei lineamenti un po' "orientali", di essere fermato per un controllo dei documenti. L'elemento che vorrei sottolineare è, però, quello della derisione benevola. No, non è un'esagerazione teatrale o narrativa. Tanti cristiani – lasciamo perdere la società secolarizzata – non prendono sul serio il cristianesimo con le sue verità e le scelte che esige.

 

Un'infarinatura di preghiere e di qualche opera buona non è una risposta al Discorso della montagna e ai suoi appelli, così come una vaga conoscenza dei Vangeli non copre la richiesta che Cristo avanza di adesione alla sua rivelazione di verità, di amore, di libertà. Le sue parole, se ridotte a dialogo di società, si spengono, perché esse in realtà hanno il fuoco dentro e vorrebbero invece accendersi nelle menti e nelle anime. Non si può solo lasciarlo parlare e poi irriderlo perché è "esagerato". Eppure è questo il rischio che stiamo correndo nel grigiore dei nostri giorni.

 

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Nella società del benessere non si fa più nessuna valida distinzione tra il lusso e le necessità. Ci sono dei centri commerciali così immensi da essere diventati vere e proprie cittadelle: ne intravedo uno ogni volta che mi reco all'aeroporto di Fiumicino e mi si dice che ci sono famiglie romane che là trascorrono l'intera domenica, perché la varietà delle offerte – anche di divertimenti – è tale da coprire tutte le esigenze. Ecco, è proprio questa parola «esigenze» ad essere al centro della nostra riflessione odierna.

 

Mi aiuta a svilupparla la frase che ho tratto dal saggio The affluent society di un famoso economista americano dell'era kennediana, John K. Galbraith (1908-2006). La società opulenta, «affluente», come si è soliti dire con un anglicismo (o persino «superaffluente»), ha travolto il tradizionale concetto di «esigenze».

 

Esso rimandava alle nostre necessità primarie che, certo, variavano da epoca a epoca e secondo i diversi contesti culturali e ambientali, ma si basavano sui fondamentali dell'esistenza. Il superfluo era considerato un «lusso», un di più non necessario ma solo voluttuario: è significativo che in inglese «lusso» si dica luxury!

 

Ora si è compiuta una svolta: la società dei consumi non conosce quella distinzione e il concetto di «esigenze» o di «necessario» si è dilatato fino ad abbracciare anche l'opulenza, la sovrabbondanza, il superfluo, l'accessorio.

 

Si ha, così, una mentalità sfrenata nell'«esigere» e questo si rivela non solo in sede commerciale, ma anche semplicemente umana. Si pretende tutto, fino all'eccesso, e l'idea di felicità è nel poter comperare tutto quello che brilla e che è piacevole. Invano l'antica sapienza dei Ricordi dell'imperatore Marco Aurelio ci ammonisce: «La maggior parte delle cose che diciamo e facciamo non sono necessarie: chi le elimina dalla sua vita sarà più tranquillo e sereno».

 
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Se non si possono evitare le rughe del volto, è però possibile evitare le rughe dello spirito. Diciamo ai giovani: «Gli uomini, come il vino, migliorano invecchiando». Ma diciamo ai vecchi: «Attenti all'acidità!». «Come d'autunno si levan le foglie / l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie…»: molti avranno riconosciuto in questa comparazione, poeticamente fragrante ed echeggiante l'Eneide di Virgilio, la voce di Dante che raffigura in quelle foglie morte autunnali le anime perverse guidate da «Caron dimonio, con occhi di bragia» (Inferno III, 112-114).
 
Noi, invece, scegliamo, per l'ingresso in questa dolce stagione dai colori tenui e delicati, una curiosa riflessione del letterato parigino Jean-Baptiste-Alphonse Karr (1808-1890), che abbiamo scoperto in un'antologia. Brioso, talora incline alla satira, finì la sua vita nei pressi di Nizza dedicandosi alla floricoltura.
 
Ritorniamo, così, alla natura da cui siamo partiti con Dante; ora, però, di scena è l'autunno della vita umana, la vecchiaia che ha come emblema la ragnatela di rughe che si distende sul nostro volto. Tanto temuta dai vanitosi (che non sono solo le donne), essa permette un'applicazione che si addice a tutti. Ci sono, infatti, anche le «rughe dello spirito», come giustamente osservava Karr, ed esse sono equamente distribuite in tutte le età.
 
Ecco, allora, quel duplice consiglio. Ai giovani: non temete il flusso degli anni, perché esso porta con sé esperienza, sapienza, consiglio e, quindi, migliora la persona, come accade al vino. Agli anziani: attenzione, non è così automatico che vecchiaia e maturità siano sinonimi, perché ci può essere anche la degenerazione, proprio come avviene a certi vini inaciditi o abboccati. Ogni età è bella purché l'anima (e non tanto il corpo) abbia poche rughe.
 
 
 
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Non ho mai dimenticato una frase che mi diceva mio padre, un umile stagnino: «Fai la fame, ma compera dei libri e gira il mondo». È per me da tanti anni un amico; nella sua comunità ritorno sempre con gioia, accolto da un'ospitalità affabile e generosa; la sua raffinatezza come cuoco è pari alla sagacia con cui elabora i suoi scritti. Sto parlando di un autore che i lettori di Avvenire ben conoscono e apprezzano. È il monaco Enzo Bianchi della comunità di Bose (Biella), al quale debbo questa confessione autobiografica che giro a tutti perché è adatta alla ripresa scolastica che sta verificandosi in questi giorni.

 

Quanti genitori sarebbero pronti a ripetere questo consiglio ai loro figli? Al massimo regalerebbero l'ultimo ritrovato elettronico, un capo di abbigliamento firmato e una vacanza-studio che di studio ha solo il nome. La vera attrezzatura per affrontare la vita non è nelle tenute sportive o nei processori più sofisticati, ma in uno studio appassionato e serio e in un'esperienza fatta di conoscenza genuina e non di semplici trasferimenti spaziali in località esotiche.

 

 Fermiamoci solo su questa parola che sembra un po' fuori moda, «studiare». Non è un esercizio facile perché esige impegno, attenzione, costanza; ma chi entra in questa consuetudine riesce a capire per quale ragione in latino studère abbia come accezione primaria proprio l'«appassionarsi».

 

Ecco, il vero studio non è soltanto apprendimento, ma ricerca, analisi, riflessione, creatività e alla fine l'aprirsi di orizzonti inattesi e immensi. Il vecchio stagnino, però, aveva capito che bisognava coniugare allo studio l'esperienza. Nei suoi Consigli a uno studente (1942), lo scrittore francese Max Jacob diceva: «La verità sul mondo non s'impara solo sui libri… La bellezza la troverai guardando la natura, la verità la scoprirai da solo nella ricerca».

 

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Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta di pietre e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo.

 

Non è la prima volta che abbiamo lasciato la parola a Etty Hillesum, giovane donna ebrea olandese, deportata ad Auschwitz: per due anni, alle soglie della sua morte nelle camere a gas di quel lager, ci ha lasciato un diario spirituale emozionante, tradotto in italiano da Adelphi (Diario 1941-43).

 

In questa domenica facciamo risuonare la sua parola cristallina perché ci aiuta a incontrare Dio.

Tanti sono i crocevia nei quali egli ci attende. Etty, cioè Ester, ce ne ricorda uno vicinissimo e sempre aperto al passaggio di Dio, quello della nostra anima, di quell'interiorità che è simile a una sorgente zampillante.

 

C'è una straordinaria freschezza in questo incontro, c'è intimità, spontaneità, immediatezza, come dice il Salmista: «L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente… in te la sorgente della vita… O Dio, ha sete di te l'anima mia in terra arida, assetata, senz'acqua» (42,3; 36,10; 63,2).

 

Ma giunge il giorno in cui sulla fonte si deposita una frana di detriti e Dio rimane sepolto.

È la valanga delle cose, dell'esteriorità, della superficialità, della colpa che ricopre l'anima di una coltre pesante fatta di relitti, di scorie, di rifiuti.

 

Bisogna, allora, con impegno, anche a mani nude, scavare per «dissotterrare Dio», riportarlo ancora al centro della coscienza, liberare dal fango le sue labbra perché ci parlino di nuovo, aiutare le sue mani ad accarezzarci.

 

Anche Dio ha bisogno di noi per essere lasciato libero di muoversi nello spazio della nostra anima e della nostra vita.

È per questo che ci ha creati liberi come lo è lui, per un abbraccio spontaneo, schietto, tenero.

 

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Maestro: dopo quello di padre, è il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.

 

Una volta, passeggiando per le strade di Atene, mi stupii di vedere in vetrina un libro intitolato in greco Kardia: sì, era proprio quel Cuore che il nostro Edmondo De Amicis pubblicò nel 1886 e che accompagnò tutti gli adolescenti di varie generazioni fino – credo – al Sessantotto quando furono abbattuti molti miti (ma anche alcuni valori) di cui grondavano quelle pagine.

 

Durante le scorse vacanze, nella mia casa paterna, ho ritrovato l'edizione sgualcita di quella mia lontana lettura ormai antica e, sfogliandola, mi sono imbattuto in questa definizione, enfatica fin che si vuole, ma meritevole di un pensiero che riserviamo proprio agli esordi del mese che s'affaccia sul nuovo anno scolastico. Con la “maestrina dalla penna rossa” se ne sono andati anche quasi tutti gli altri maestri.

 

È vero, alcuni erano decisamente cattivi maestri, altri erano impregnati e asserviti alle ideologie, altri ancora erano stanchi ripetitori di concezioni e di ideali un po' decotti. Ma con quella piazza pulita che si è fatta, i giovani (ma non solo) si sono trovati in un deserto senza padri e maestri. Il padre è stato cancellato dalla psicanalisi a causa della sua ombra incombente e seducente; il maestro è stato spazzato via dalla società emancipata e dalle nuove teorie pedagogiche.

 

Visti i risultati, qualche resipiscenza sta ora emergendo e la figura dell'educatore torna a presentarsi nella scuola, nella comunità civile ed ecclesiale. Con una consapevolezza, comunque: ben arduo e delicato è questo compito e i suoi errori sono sempre tragici, anche perché – come diceva Orazio (citato da sant'Agostino) – «una volta che un'anfora è stata impregnata di un odore, lo conserverà a lungo».

 

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La ferma convinzione religiosa, la sua angoscia, la sua fiducia, il suo senso del peccato, tutto scivola molto lentamente nella laicità e si confonde fin quasi a sparire. Quello che una volta era importante, ora sembra lontano. Non è una rottura drammatica, scivola solo via.

 

S'intitola Un'altra vita (Iperborea 2010) ed è in pratica un'autobiografia alla terza persona di uno dei più noti scrittori svedesi contemporanei, Per Olov Enquist. Il filo narrativo parte dal 1934 in uno sperduto villaggio puritano della Svezia settentrionale, nel silenzio glaciale e immutabile delle nevi e del cielo stellato, e procede percorrendo l'Europa con la storia tormentata del secondo Novecento.

 

Una delle tappe è quella della perdita della fede, intimamente istillata dalla madre, maestra elementare, nel cuore e nella carne del figlio. Eppure, quest'anima così radicata lentamente si dissolve. Non è un trauma etico o metafisico o storico a creare questa dissipazione, ma è un puro e semplice «scivolar via».

 

Penserei a un avverbio per rappresentare questa crisi: «insensibilmente». In esso si racchiude la storia di tanti nostri giovani e forse anche di alcuni di noi, se si entra nel santuario sigillato delle coscienze, di là dalle pareti dei comportamenti esteriori.

 

Non è stata una ribellione contro Dio e neppure un evento scandaloso che ha scagliato contro il cielo, cancellando la fede. È stato solo un progressivo disfacimento a cui non si è badato, pensando che fosse solo qualche distacco secondario.

 

E, invece, in modo impercettibile - insensibilmente, appunto - Dio, fede, grazia, peccato, colpa sono diventate parole senza senso e soprattutto senza riscontri vitali. Sono «scivolati via» ed è rimasto il vuoto. Fermiamoci, allora, e riflettiamo prima che tutto si dissolva.



 

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Messaggio Cristiano
INCONTRO CON GLI STUDENTI IN OCCASIONE DEL GIUBILEO DEL MONDO EDUCATIVO - Aula Paolo VI, 30 ottobre 2025

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,
La pace sia con voi!

Cari ragazzi, care ragazze, buongiorno!

Che gioia incontrarvi! Grazie a voi! Ho atteso questo momento con grande emozione: la vostra compagnia, infatti, mi fa ricordare gli anni nei quali insegnavo matematica a giovani vivaci come voi. Vi ringrazio per aver risposto così, per essere qui oggi, per condividere le riflessioni e le speranze che, attraverso di voi, consegno ai nostri amici sparsi in tutto il mondo.

Vorrei cominciare ricordando Pier Giorgio Frassati, uno studente italiano che, come sapete, è stato canonizzato durante quest’anno giubilare. Col suo animo appassionato per Dio e per il prossimo, questo giovane santo coniò due frasi che ripeteva spesso, quasi come un motto, lui diceva: “Vivere senza fede non è vivere, ma vivacchiare” e ancora: “Verso l’alto”. Sono affermazioni molto vere e incoraggianti. Anche a voi, perciò, dico: abbiate l’audacia di vivere in pienezza. Non accontentatevi delle apparenze o delle mode: un’esistenza appiattita su quel che passa non ci soddisfa mai. Invece, ognuno dica nel proprio cuore: “Sogno di più, Signore, ho voglia di più: ispirami tu!”. Questo desiderio è la vostra forza ed esprime bene l’impegno di giovani che progettano una società migliore, della quale non accettano di restare spettatori. Vi incoraggio, perciò, a tendere costantemente “verso l’alto”, accendendo il faro della speranza nelle ore buie della storia. Come sarebbe bello se un giorno la vostra generazione fosse riconosciuta come la “generazione plus”, ricordata per la marcia in più che saprete dare alla Chiesa e al mondo.

Questo, cari ragazzi, non può rimanere il sogno di una persona sola: uniamoci allora per realizzarlo, testimoniando insieme la gioia di credere in Gesù Cristo. Come possiamo riuscirci? La risposta è essenziale: attraverso l’educazione, uno degli strumenti più belli e potenti per cambiare il mondo.

L’amato Papa Francesco, cinque anni fa, ha lanciato il grande progetto del Patto Educativo Globale, e cioè un’alleanza di tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nell’ambito dell’educazione e della cultura, per coinvolgere le giovani generazioni in una fraternità universale. Voi, infatti, non siete solo destinatari dell’educazione, ma i suoi protagonisti. Perciò oggi vi chiedo di allearvi per aprire una nuova stagione educativa, nella quale tutti — giovani e adulti — diventiamo credibili testimoni di verità e di pace. Per questo vi dico: siete chiamati a essere truth-speakers e peace-makers, persone di parola e costruttori di pace. Coinvolgete i vostri coetanei nella ricerca della verità e nella coltivazione della pace, esprimendo queste due passioni con la vostra vita, con le parole e con i gesti quotidiani.

In proposito, all’esempio di san Pier Giorgio Frassati unisco una riflessione di san John Henry Newman, un santo studioso, che presto sarà proclamato Dottore della Chiesa. Egli diceva che il sapere si moltiplica quando viene condiviso e che è nella conversazione delle menti che si accende la fiamma della verità. Così la vera pace nasce quando tante vite, come stelle, si uniscono e formano un disegno. Insieme possiamo formare costellazioni educative, che orientano il cammino futuro.

Da ex professore di matematica e fisica, permettetemi di fare con voi qualche calcolo. Avrete l’esame di matematica tra poco forse? Vediamo… Sapete quante stelle ci sono nell’universo osservabile? È un numero impressionante e meraviglioso: un sestilione di stelle – un 1 seguito da 21 zeri! Se le dividessimo tra gli 8 miliardi di abitanti della Terra, ogni uomo avrebbe per sé centinaia di miliardi di stelle. Ad occhio nudo, nelle notti limpide, possiamo scorgerne circa cinquemila. Anche se le stelle sono miliardi di miliardi, vediamo solo le costellazioni più vicine: queste però ci indicano una direzione, come quando si naviga per mare.

Da sempre i viaggiatori hanno trovato la rotta nelle stelle. I marinai seguivano la Stella Polare; i Polinesiani attraversavano l’oceano memorizzando mappe stellari. Secondo i contadini delle Ande, che ho incontrato da missionario in Perù, il cielo è un libro aperto che segna le stagioni della semina, della tosatura, dei cicli della vita. Persino i Magi hanno seguito una stella per arrivare a Betlemme ad adorare Gesù Bambino.

Come loro, anche voi avete stelle-guida: i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti, i buoni amici, bussole per non perdervi nelle vicende liete e tristi della vita. Come loro, siete chiamati a diventare a vostra volta luminosi testimoni per chi vi sta accanto. Ma, come dicevo, una stella da sola resta un punto isolato. Quando si unisce alle altre, invece, forma una costellazione, come la Croce del Sud. Così siete voi: ognuno è una stella, e insieme siete chiamati a orientare il futuro. L’educazione unisce le persone in comunità vive e organizza le idee in costellazioni di senso. Come scrive il profeta Daniele, «quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno» (Dn 12,3): che meraviglia: siamo stelle, sì, perché siamo scintille di Dio. Educare significa coltivare questo dono.

L’educazione, infatti, ci insegna a guardare in alto, sempre più in alto. Quando Galileo Galilei puntò il cannocchiale al cielo, scoprì mondi nuovi: le lune di Giove, le montagne della Luna. Così è l’educazione: un cannocchiale che vi permette di guardare oltre, di scoprire ciò che da soli non vedreste. Non fermatevi, allora, a guardare lo smartphone e i suoi velocissimi frammenti d’immagini: guardate al Cielo, guardate verso l’alto.

Cari giovani, voi stessi avete suggerito la prima delle nuove sfide che ci impegnano nel nostro Patto Educativo Globale, esprimendo un desiderio forte e chiaro; avete detto: “Aiutateci nell’educazione alla vita interiore.” Sono rimasto veramente colpito da questa richiesta. Non basta avere grande scienza, se poi non sappiamo chi siamo e qual è il senso della vita. Senza silenzio, senza ascolto, senza preghiera, perfino le stelle si spengono. Possiamo conoscere molto del mondo e ignorare il nostro cuore: anche a voi sarà capitato di percepire quella sensazione di vuoto, di inquietudine che non lascia in pace. Nei casi più gravi, assistiamo a episodi di disagio, violenza, bullismo, sopraffazione, persino a giovani che si isolano e non vogliono più rapportarsi con gli altri. Penso che dietro a queste sofferenze ci sia anche il vuoto scavato da una società incapace di educare la dimensione spirituale, non solo tecnica, sociale e morale della persona umana.

Da giovane, sant’Agostino era un ragazzo brillante, ma profondamente insoddisfatto, come leggiamo nella sua autobiografia, Le Confessioni. Egli cercava dappertutto, tra carriera e piaceri, e ne combinava di tutti i colori, senza però trovare né verità né pace. Finché non ha scoperto Dio nel proprio cuore, scrivendo una frase densissima, che vale per tutti noi: «Il mio cuore è inquieto finché non riposa in Te». Ecco allora che cosa significa educare alla vita interiore: ascoltare la nostra inquietudine, non fuggirla né ingozzarla con ciò che non sazia. Il nostro desiderio d’infinito è la bussola che ci dice: “Non accontentarti, sei fatto per qualcosa di più grande”, “non vivacchiare, ma vivi”.

La seconda delle nuove sfide educative è un impegno che ci tocca ogni giorno e del quale voi siete maestri: l’educazione al digitale. Ci vivete dentro, e non è un male: ci sono opportunità enormi di studio e comunicazione. Non lasciate però che sia l’algoritmo a scrivere la vostra storia! Siate voi gli autori: usate con saggezza la tecnologia, ma non lasciate che la tecnologia usi voi.

Anche l’intelligenza artificiale è una grande novità – una delle rerum novarum, cioè delle cose nuove – del nostro tempo: non basta tuttavia essere “intelligenti” nella realtà virtuale, ma bisogna essere umani con gli altri, coltivando un’intelligenza emotiva, spirituale, sociale, ecologica. Perciò vi dico: educatevi ad umanizzare il digitale, costruendolo come uno spazio di fraternità e di creatività, non una gabbia dove rinchiudervi, non una dipendenza o una fuga. Anziché turisti della rete, siate profeti nel mondo digitale!

A questo riguardo, abbiamo davanti un attualissimo esempio di santità: San Carlo Acutis. Un ragazzo che non si è fatto schiavo della rete, usandola invece con abilità per il bene. San Carlo unì la sua bella fede alla passione per l’informatica, creando un sito sui miracoli eucaristici, e facendo così di Internet uno strumento per evangelizzare. La sua iniziativa ci insegna che il digitale è educativo quando non ci rinchiude in noi stessi, ma ci apre agli altri: quando non ti mette al centro, ma ti concentra su Dio e sugli altri.

Carissimi, arriviamo infine alla terza nuova grande sfida che oggi vi affido e che sta al cuore del nuovo Patto Educativo Globale: la educazione alla pace. Vedete bene quanto il nostro futuro venga minacciato dalla guerra e dall’odio che dividono i popoli. Questo futuro può essere cambiato? Certamente! Come? Con un’educazione alla pace disarmata e disarmante. Non basta, infatti, far tacere le armi: occorre disarmare i cuori, rinunciando a ogni violenza e volgarità. In tal modo, un’educazione disarmante e disarmata crea uguaglianza e crescita per tutti, riconoscendo l’uguale dignità di ogni ragazzo e ragazza, senza mai dividere i giovani tra pochi privilegiati che hanno accesso a scuole costosissime e tanti che non accesso all’educazione. Con grande fiducia in voi, vi invito a essere operatori di pace anzitutto lì dove vivete, in famiglia, a scuola, nello sport e tra gli amici, andando incontro a chi proviene da un’altra cultura.

Per concludere, carissimi, il vostro sguardo non sia rivolto alle stelle cadenti, cui si affidano desideri fragili. Guardate ancora più verso l’alto, verso Gesù Cristo, «il sole di giustizia» (cfr Lc 1,78), che vi guiderà sempre nei sentieri della vita.

LEONE XIV