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Grazie Gis!

20 Gennaio 2018

Gisella Calliari, una delle prime focolarine, si è spenta oggi, 20 gennaio, all’età di 97 anni. Una vita lunga, sempre protesa alla realizzazione del “sogno” di Gesù: «Che tutti siano uno».

 

GisCalliariCon gratitudine per “il suo esempio di fedeltà eroica al suo disegno” Maria Voce, presidente dei Focolari, ha comunicato a tutti i membri del Movimento nel mondo la scomparsa di Gisella Calliari che questa sera si è spenta serenamente, dopo una lunga vita all’insegna dell’unità.Pur nel dolore di questa grande perdita”, dice la presidente, “restiamo con lei, un cuor solo e un’anima sola”.

 

Gisella Calliari era nata a Lavis (Trento, Italia) il 18 aprile 1920. Conosciuta semplicemente come Gis, è stata una delle prime giovani che, insieme alla sorella Ginetta, aveva seguito Chiara Lubich in quella “avventura dell’unità” che ha segnato gli inizi del Movimento dei Focolari e i suoi sviluppi nel mondo. Terza di tre sorelle, aveva incontrato Chiara nel 1944, nel piccolo appartamento che ospitava il primo focolare, in Piazza Cappuccini, a Trento. Il giorno dopo aveva già maturato la scelta di seguirla sulla stessa strada. L’iniziale ostilità della famiglia venne meno quando la mamma conobbe Igino Giordani (Foco), di cui Gisella divenne segretaria a Roma.

 

Nella sua lunga vita Gis è vissuta con Chiara per più di 40 anni. Dopo essere stata responsabile di alcuni focolari in Italia (nelle città di Trento, Roma, Milano, Firenze), le è stata affidata la sezione delle focolarine. In seguito ha affiancato la fondatrice, insieme a Oreste Basso, nel seguire gli sviluppi di tutta l’Opera di Maria. Per questo incarico ha visitato più volte le comunità nel mondo.
Una vita, la sua, profondamente legata al carisma dell’unità, al quale si è mantenuta fedele fino alla fine, con gli effetti di una grande fecondità spirituale in lei e attorno a lei.

 

 

 

23 anni per credere all'Amore, 7 per sperimentare la gioia vera (1965 – 24 Agosto 1995)

 

Con una realtà difficile alle spalle, fin dall’ adolescenza aveva cercato di dare un senso alla sua vita. Giudicata superficiale la religiosità tradizionale che lo circondava, si era legato dapprima ad un gruppo di pacifisti, in seguito ad una comunità socialista ed infine ad una ragazza con cui ha vissuto per tre anni un rapporto burrascoso. Sempre però Alfredo, alla fine, si è trovato deluso, vuoto ed apatico.

 

«Un giorno – ricorda Giorgio, focolarino a Treviso, dove abitava Alfredo – telefona una signora che, avendo sentito parlare di noi, chiede se possiamo incontrare suo figlio». A chiamare, preoccupata per lui, era la mamma di Alfredo, suscitando ovviamente le sue ire.  A quella prima ‘pizza insieme’, seguono altri incontri. Alfredo comincia a frequentare il focolare e i gen (i giovani dei focolari) della sua città. Tuttavia, la paura di incappare in nuove delusioni gli impedisce un coinvolgimento maggiore.  Solo nel ’91 partecipa ad una Mariapoli, (incontro di alcuni giorni sulla Spiritualità dei focolari). La gioia sperimentata in quell’occasione gli fa comprendere quanto grande sia la felicità che viene dall’amore concreto verso il prossimo. Inizia così anche lui a vivere la Spiritualità di Chiara Lubich e a frequentare con più assiduità il focolare.

 

Con una gen nasce e si consolida poi, un rapporto sempre più profondo, ‘nutrito’ anche da scelte difficili: «Quando, all’inizio, gli ho spiegato la mia scelta di vivere la purezza nel nostro rapporto – racconta Raffaella -, è rimasto sconcertato perché non lo credeva possibile.  Dopo 15 giorni mi ha richiamata, dicendomi che ci stava! Col tempo il nostro rapporto è maturato, tanto che, alcuni mesi dopo, lui stesso mi ha detto: “Sai, se anche tu cambiassi idea, sarei io ora a fare la tua scelta e a portarla avanti”».

 

Presto però, arrivano i momenti crudi. Il rapporto tra i genitori si fa sempre più difficile arrivando alla rottura. Alfredo perde il suo lavoro di restauratore. Si demoralizza, disertando anche gli incontri dei gen. Nel ’93 infine, i forti dolori che lo affliggono da qualche tempo, rivelano una grave forma tumorale ormai irreversibile, della quale, inizialmente, è tenuto all’oscuro.

 

Seguono alcuni mesi in cui Alfredo sembra ristabilirsi. Vive forti esperienze di amore concreto, soprattutto nel lavoro che, nel frattempo, ha ripreso. Un piccolo dono di Dio per mostrargli, in modo chiarissimo, quanto Egli sia Amore e prepararlo ai momenti difficili che, nel gennaio ’94, arrivano: nuovamente ricoverato, gli si rivela la gravità del male.  Alfredo piange per ore nella cappellina dell’ospedale.  Scrive a Chiara: «Sto lottando, a volte con forza… Altre volte mi sembra che tutto non abbia più senso, ma, in quei momenti, ciò che più mi aiuta è sapere che tutto viene da Dio…io non posso capire perché, ma sono convinto che è un percorso che devo fare. E sono sicuro che, con il Suo aiuto, ce la farò». E ChiaraGrazie dell’offerta delle tue sofferenze…Dio sa quanto sono preziose! Abbandonati a Lui con fiducia, come già fai nei momenti difficili… Egli ti ama con predilezione, ti porterà avanti e ti darà la forza di superare la prova e di rispondere con il tuo amore al Suo infinito. Io prego per te».

 

Nel frattempo, per poter rendere meno dura l’esperienza del figlio, i genitori si riappacificano e possono così accompagnarlo serenamente negli ultimi mesi di vita. Accanto a lui fino all’ultimo – il 24 agosto 1995 parte per il Cielo – restano sempre anche Raffaella a cui confida: «Sento di volermi fare santo .. Dio mi sta chiedendo questo».; e i gen con cui condivide anche le gioie e le difficoltà della preparazione del Genfest del ’95. Subito dopo aver visto il programma alla tv, scrive:”Carissima Chiara, ti sto scrivendo per ringraziarti del genfest che ho seguito dal lettino….É  proprio nei momenti di maggior dolore che sento dentro quella forza che mi fa andare avanti…Ciao!». E subito Chiara, tra l’altro, risponde:« Ciao Alfredo! Sono con te nell’unico Bene e nella luce del Risorto».

 

Come aveva chiesto, il funerale è una grande festa e Giorgio confida: «Anticamente, molte persone si convertivano alla nuova fede solo nel vedere come i primi cristiani morivano nelle arene e ugualmente oggi, da come Alfredo ha saputo affrontare la malattia e dall’amore che si respirava attorno a lui, molti hanno rimesso in questione la loro esistenza e vogliono ora orientarla diversamente».

 

 

Rimasta orfana a due anni, Joëlle viene accolta dagli zii a Man (Costa d’Avorio). È timida e timorosa di tutto, ma un giorno la nuova mamma la porta in focolare. Improvvisamente, colpita senz’altro dalla bella atmosfera che si respira, Joëlle inizia a ridere di gusto e a parlare.

 

Prende così a frequentare gli incontri delle gen 4, le bambine che vivono la spiritualità dei Focolari. Nadia, la loro ‘assistente’, racconta come cerca di riempire la giornata di tanti atti d’amore e dona ad ognuna un braccialetto con tante perline: «così potete contare anche i vostri ogni giorno!»

 

Joëlle accoglie con grandissimo entusiasmo la proposta. E con quale determinazione!

 

Un giorno, ad esempio, Joëlle si offre con la sorella di riaccompagnare una signora verso casa. La strada è lunga da fare a piedi, ma la piccola non ne vuole sapere di tornare indietro: «Non puoi restare sola!» Accompagna la donna fino a casa e si trattiene a chiacchierare finché a un certo punto dice: «Adesso stanno per arrivare i tuoi figli da scuola, possiamo lasciarti!»

 

Dopo qualche tempo, per il lavoro del papà, la famiglia di Joëlle si trasferisce nella parte meridionale del Paese, lontano dal focolare. Per lei è un grande dolore, ma in poco tempo fa amicizia con tutti i bambini del quartiere, condividendo con loro le sue esperienze.

 

Una maestra ricorda: «Aveva sempre qualcosa da dare. Se c’era qualcuno che mangiava mais sotto il banco, di sicuro glielo aveva dato lei. Se nel cortile c’era un capannello di bambini, potevi stare certo che al centro c’era Joëlle che distribuiva a tutti il suo succo, dicendo a ognuno “Bevi, ma non finirlo tutto!”».

 

Un giorno una bambina ha chiesto alla sorella di tre anni se conoscesse Joëlle. La piccola è corsa dentro casa ed è uscita con un paio di scarpe: «me le ha regalate lei!».

 

Una sera Joëlle ha la febbre alta. Prima di partire per l’ospedale, squilla il telefono. È Vitoria, del focolare che saputa la situazione chiede a Joëlle: «Vero che offri tutto a Gesù?» la risposta è immediata: «Là in fondo al mio cuore, anche se gli altri non lo sanno, l’ho già fatto!»

 

Già da molto tempo infatti, chiedeva con insistenza di poter ricevere il Battesimo. Il 7 luglio 2004, questo grande desiderio viene esaudito. Subito dopo, come scrive Chiara Lubich, “carica di tanti atti d’amore, è volata in Cielo.”

 

Morta ad appena 6 anni, per la cultura ivoriana, Joëlle non avrebbe potuto essere sepolta come una persona adulta. «Come potevamo però non farle un funerale degno? – ricorda la mamma – noi sapevamo che spiritualmente Joëlle era grandissima! Aveva creato attorno a sé una rete impressionante di rapporti ed era amata da tutti. Come potevamo non seppellirla con onore? Il funerale c’è stato ed è stato una festa, con il concorso di tantissime persone. E questo modo di fare ha sorpreso tanti: una testimonianza che ha cambiato anche la mentalità». 

 



 

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Messaggio Cristiano
Udienza Generale, 17 Aprile 2024

Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su sé stessi”. La temperanza è un potere su sé stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Papa Francesco